Ode Istmia VI

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Pindaro - Le odi e i frammenti (518 a.C. / 438 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1927)
Ode Istmia VI
Le odi eginetiche - Ode Nemea V Le odi eginetiche - Ode Istmia V
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ODE ISTMIA VI

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È questa la seconda delle odi scritte da Pindaro per i figli di Lampone. Come nei conviti si facevano le tre libagioni, la prima a Giove olimpico, la seconda alla Terra e agli Eroi, la terza a Giove salvatore, cosí Pindaro s’augura che a queste due vittorie ne succeda una terza: e l’augura piú gloriosa, olimpica (v. 7). Olimpica non fu, fu istmica; ma, ad ogni modo, al poeta non mancò l’occasione a questa terza libagione poetica.

Segue la consueta affermazione che se un uomo è ricco, se adopera la ricchezza a buon fine, e riscuote fama, tocca l’apice della felicità umana. Lampone si trova appunto in queste condizioni; e fa voti di rimaner sempre del medesimo umore (10-18).

Se io — seguita Pindaro — parlo di Egina, non posso non parlare degli Eàcidi: le loro gesta sono innumerevoli, la loro fama è diffusa per ogni terra. Chi non conosce Aiace e Telamone? — E qui narra le gesta di Telamone, a Troia, confondendo un po’, al solito, l’ordine cronologico, che dunque va restituito cosí.

Laomedonte, aiutato da Posidone e da Apollo a costruire Troia, aveva poi negato ai Numi il pattuito compenso. Onde Posidone, per punirlo, suscitò dal mare un mostro al quale i Troiani dovevano periodicamente sacrificare una fanciulla, tratta a sorte. La sorte designò una volta Esione, figlia di [p. 104 modifica] Laomedonte; e questi promise ad Eracle che, se avesse salvata la fanciulla, gli avrebbe dati i cavalli donati da Giove a Troo, in compenso di Ganimede. L’eroe uccise il mostro, e Laomedonte gli negò i cavalli. Eracle, a far vendetta, raccolse i suoi amici; e quando si recò da Telamone, lo trovò che banchettava; e, invitato a far la prima libagione, chiese a Giove che concedesse a Telamone un figlio valorosissimo. Apparve in cielo, fausto presagio, un’aquila: ed Eracle esortò l’amico a prendere di qui il nome del nascituro: che fu dunque Aiace (Aias = aietós = aquila). E andarono poi a Troia, abbatterono la città, uccisero Laomedonte e tutti i suoi figli, meno Priamo; e nel ritorno, ammazzarono, nella pianura di Fiegra, il gigante Alcionèo, e sterminarono i Mèropi, cioè gli antichi abitanti dell’isola di Coo (19-57).

Ma narrare tutte le gesta degli Eàcidi sarebbe lungo: il poeta è qui per cantare le lodi di Pitea e di Filàcida: lo farà alla spiccia. E segue la non lunga enumerazione.

L’ode termina con le lodi di Lampone, a cui Pindaro promette il refrigerio delle acque di Dirce, cioè della sua poesia, tebana.

La mossa lirica 25-26 fa pensare ad una nota strofa dell’inno manzoniano al Nome di Maria (In che lande selvagge, oltre quai mari - di si barbaro nome fior si coglie). E lo ricordo perché un atteggiamento anche riecheggiato nella lirica manzoniana, si riscontra pure nella terza delle odi per i figli di Lampone.

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A FILACIDA D’EGINA

VINCITORE NEL PANCRAZIO SULL’ISTMO


I


Strofe

Or, come in simposio d’amici giocondo,
pel valido atleta figliuol di Lampone
libiamo la coppa seconda. Vuotammo la prima a te, Giove
pel fiore dei serti spiccato a Nemea;
è questa pel Sire dell’Istmo,
e per le cinquanta Nerèidi: che vinse Filàcide, il figlio
piú giovine: al Nume benigno che regge l’Olimpo
offrire la terza concesso ne sia,
Egina aspergendo di canti soavi.


Antistrofe

Se un uomo che allegrasi di lauto dispendio
travaglia, ed esercita divine virtú,
e a lui germogliare fa un Dèmone gradevole fama, egli l’àncora
all’ultime plaghe gittò di Fortuna.
Tai sensi albergare nel seno
dimanda il figliuol di Cleònico insino alla bianca vecchiaia

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e al passo de l’Ade: ond’io Cloto dal trono sublime
imploro e le Parche sorelle, che il voto
de l’uomo a me caro non rendano vano.


Epodo

Or, d’Èaco figli dall’aurëo carro,
è legge chiarissima per me, se a quest’isola
io giungo, nei canti onorarvi. Ché innumeri tramiti
di vostre magnanime gesta si schiudon di séguito, e larghi
son ben cento piedi,
per mezzo a le genti Iperbòree ed oltre le foci del Nilo.
Non trovi sí barbara lingua, sí strana città, che non sappia
la gloria di Pèleo, l’eroe felice cognato dei Numi,


II


Strofe

che Aiace non sappia, non sappia Telàmone
suo padre, che a guerra correva alleato,
su navi, con schiere tirinzie, a Troia, travaglio d’eroi,
le frodi a punire di Laomedonte.
Lo addusse il figliuolo d’Alcmèna;
e prese la rocca di Priamo, con lui, sterminò la progenie
dei Mèropi. E Alcíde, trovato nel piano di Flegra
Alciònio bifolco, gigante come alpe,
la man non astenne dal nervo mugliante.

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Antistrofe

Or, quando a chiamare Telàmone ei giunse,
per gir su le navi, lo colse a banchetto.
Avvolto nel vello leonino s’ergeva il figliuol d’Anfitríone
possente; e Telàmone gli porse una coppa
di vino, di guizzi tutti aurei
corrusca; e gli chiese che desse principio ai nettarei libami.
Cosí favellò: «Padre Giove, se mai
con alma benevola udisti i miei voti,


Epodo

con fervida prece ti supplico adesso,
che nasca a quest’uomo da Eribia un figliuolo
audace; e sia questo per lui mio dono ospitale.
E indomita sia la sua tempra, com’è questo vello di fiera
che i fianchi mi cinge —
In Neme lo vinsi; e fu questa la prima di tutte mie gesta — ;
e pari sia l’anima». Disse. E l’aquila, il re degli aligeri
il Nume del cielo spedí. Soave piacere lo punse;


III


Strofe

e disse, parlando sí come profeta:
«Il figlio che brami, Telàmone, avrai:
e prendi il suo nome dall’aquila compàrsati: chiamalo Aiace:
sarà re possente, tremendo nel cozzo
di guerra». Ciò disse, e sedette.

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Ma tutte narrar ie tue gesta per me troppo lungo sarebbe,
che io per Pitèa, per Filàcida, o Musa, qui giunsi
ministro di cantici. E tutto con poche
parole, come usano gli Argivi, dirò.


Antistrofe

Tre volte il pancrazio già vinser su l’Istmo
e in Neme, fra gli alberi fronzuti, gli splendidi
figliuoli, e il german de la madre: e quanti inni trassero a luce!
E aspergon la patria dei figli di Psàlico
col rorido umor de le Càriti:
e onor di Temistio alla casa recando, dimorano in questa
città cara ai Superi. E pregia Lampone quel detto
d’Esiodo: che all’opere attender bisogna
con cura; e ai suoi figli lo insegna; e li esorta,


Epodo

Egina adornando d’un pubblico fregio.
E, amato dagli ospiti pei suoi benefizi,
misura con l’animo cerca, misura mantiene;
né il labbro favella diverso da quello ch’ei pensa. Diresti
ch’egli è fra gli atleti
ciò ch’è fra le pietre la cote di Nasso, che tempera il bronzo.
Lo disseterò con le linfe di Dirce, che attinser le figlie
dell’aureo precinta Mnemòsine, vicino ai bei valli di Cadmo.