Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
104 | LE ODI DI PINDARO |
Laomedonte; e questi promise ad Eracle che, se avesse salvata la fanciulla, gli avrebbe dati i cavalli donati da Giove a Troo, in compenso di Ganimede. L’eroe uccise il mostro, e Laomedonte gli negò i cavalli. Eracle, a far vendetta, raccolse i suoi amici; e quando si recò da Telamone, lo trovò che banchettava; e, invitato a far la prima libagione, chiese a Giove che concedesse a Telamone un figlio valorosissimo. Apparve in cielo, fausto presagio, un’aquila: ed Eracle esortò l’amico a prendere di qui il nome del nascituro: che fu dunque Aiace (Aias = aietós = aquila). E andarono poi a Troia, abbatterono la città, uccisero Laomedonte e tutti i suoi figli, meno Priamo; e nel ritorno, ammazzarono, nella pianura di Fiegra, il gigante Alcionèo, e sterminarono i Mèropi, cioè gli antichi abitanti dell’isola di Coo (19-57).
Ma narrare tutte le gesta degli Eàcidi sarebbe lungo: il poeta è qui per cantare le lodi di Pitea e di Filàcida: lo farà alla spiccia. E segue la non lunga enumerazione.
L’ode termina con le lodi di Lampone, a cui Pindaro promette il refrigerio delle acque di Dirce, cioè della sua poesia, tebana.
La mossa lirica 25-26 fa pensare ad una nota strofa dell’inno manzoniano al Nome di Maria (In che lande selvagge, oltre quai mari - di si barbaro nome fior si coglie). E lo ricordo perché un atteggiamento anche riecheggiato nella lirica manzoniana, si riscontra pure nella terza delle odi per i figli di Lampone.