Le odi e i frammenti (Pindaro)/Frammenti/Partenii
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PARTENII
I partenii, come lo dice il nome, erano canti per cori di vergini. Fiorirono specialmente a Sparta, favoriti dalla piú libera posizione ed educazione della donna. Alcmane fu il piú celebre compositore di partenii dell’antichità; e un suo frammento è tuttora vivo e popolare.
I frammenti di partenii restituiti dai papiri sono molto interessanti, e aggiungono qualche tratto caratteristico alla fisionomia del poeta. Nel papiro non portano espressamente il nome di Pindaro, né dal loro contesto si rileva alcun tratto che consenta una sicurissima attribuzione; però non sembra dubbia e infatti da nessuno, ch’io sappia, fu impugnata, la paternità pindarica.
I
Papiri d’Ossirinco, IV, 659.
Di questa composizione rimane leggibile una sola triade. Nel primo verso dell’antistrofe parla il poeta in proprio nome (al mascolino: nella traduzione il genere sparisce), mentre di solito nei partenii parla in propria persona il coro delle fanciulle. Ma questo non basta a far escludere che il brano appartenesse ad un partenio.
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II
Questo partenio, conservato assai bene, è da ascrivere fra le scoperte piú preziose. Appartiene ad una varietà speciale, è una dafneforia, o «processione dell’alloro», che si celebrava solennemente in Tebe, ogni nove anni. Proclo, nella sua crestomazia (26), ne dà una lunga descrizione, che si può riassumere cosí. A capo del corteo, camminava un fanciullo che avesse vivi il padre e la madre; e, accanto a lui, il suo piú prossimo parente portava un ramo d’ulivo coronato di foglie d’alloro, di fiori, e di parecchie sfere di bronzo. Seguiva il dafneforo, coi capelli sparsi redimiti d’una corona d'oro, e toccava il ramo. Seguiva uno stuolo di fanciulle, che, reggendo ciascuna un ramuscello d’alloro, cantavano l'inno. E tutti movevano verso il santuario d’Apollo.
Esaminate alla luce di questa descrizione, le circostanze materiali del partenio di Pindaro si prestano a parecchie discussioni. A me pare tuttavia che sia facile vedere la verità; purché s’intenda, come del resto, mi sembra, tutti intendono, che il fanciullo che precede il corteo e il dafneforo fossero una sola persona, e che cosí intendesse anche Proclo, sebbene la sua espressione sia ambigua. Allora mi sembra chiaro che il dafneforo sia Agasicle (antistr. III), figlio di Pagonda e nipote di Aiolade (antistr. I), che comandò l’esercito tebano, come beotarco alla battaglia di Delio (423). Il figlio di Dèmena sarà il piú prossimo parente, quello che doveva reggere la rama di ulivo, che, cosí carica, riusciva troppo pesante per le deboli forze di un fanciullo. Lo segue, prima delle cantatrici, sua figlia; e questa fu ammaestrata da una certa Andasistrata.
Questo partenio offre una nota nuova nella poesia pindarica. È intimo, semplice, schietto. Non contiene mito; e le fanciulle sembra dicano che la gravità mitica sconviene a pensieri virginei. Il duplice accenno ai ramuscelli d’alloro che esse tengono danzando e cantando, conferisce alla composizione inesprimibile freschezza. In questi piccolissimi tratti risiede spesso il fascino della poesia greca.
IN ONORE D’AGASICLE
qui giunse, ai Tebani Mancano l’antistrofe II e l’epodo II.
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Mancano il fine della strofe IV e l’epodo IV. La strofe V è anch'essa quasi incomprensibile: pare vi si accennasse a dispiaceri avuti dalla famiglia di Pagonda per la tristizia dei nemici.
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Manca la fine dell’epodo V. Al principio della strofe VI il poeta dissuade i signori pei cui ha scritto questo partenio dal ricorrere ad altri poeti.
Strofe VI |
La fine è perduta.
III
Secondo una leggenda riferita nella biografia ambrosiana di Pindaro, il Dio Pan sarebbe stato sorpreso mentre, fra il Citerone e l’Elicona, cantava un peana di Pindaro. E il poeta, per riconoscenza, avrebbe composto in onore del Nume il partenio a cui appartennero i vezzosi frammenti che tuttora possediamo. La strana leggenda avrà avuto origine dalla interpretazione letterale e pedestre dì qualche brano del partenio stesso.
Ai frammenti riportati dal Puech, mi sembra si possa aggiungere il bellissimo brano citato da Plutarco nel suo opuscolo sugli oracoli delfici (29, pag. 409), nel quale si descrivono gli effetti benefici dell’apparizione del Dio in una contrada agreste.
AL DIO PAN
te chiamano cane versatile
Il Dio appare in una contrada agreste.
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