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della vita di guarnigione, diede la sua dimissione, e si ritirò a Praga per studiarvi la chimica. Là, aveva domandato in isposa una ricca e nobile ereditiera, e non avendola ottenuta, sposò la sua istitutrice, una francese. Il suo carattere traspariva di già: ambizione, invidia, rancore, orgoglio, vendetta! Görgey dissimulava poco la feccia del suo cuore, quando poteva farlo senza inconveniente; e così forse vendicavasi della natura che, nella composizione della sua persona, metteva in guardia gli osservatori.

Grande, svelto, sottile, agile, il suo corpo di dandy finiva con una testa di donna, piccola e non bella. Aveva capelli castani, rari, tagliati corti, nell’intenzione di dare più spazio e più lume alla sua fronte scura. I suoi occhi grigi, instabili, irritabili, non avevano quella dietro-cortina degli ipocriti, che copre nell’abisso della pupilla l’abisso dell’anima. Egli li velava con occhiali d’oro, che offuscavano ciò che v’era di petulante in quel viso. Un par di mustacchi magri e sottili, faceva spiccare il pallore ceruleo e l’avida sottigliezza delle labbra, sempre corrucciate, se un sorriso beffardo cessava d’incresparle. Questa fisonomia corta sopra una statura elevata, quei tratti comuni sopra un corpo disinvolto, quel viso ove la natura aveva scritto una idea, ed ove la premeditazione sostituiva una maschera, mi diedero a riflettere. Görgey s’accorse che io l’osservava. E se avesse potuto dubitare che io dirigeva su lui la mia implacabile attenzione, come un microscopio che lo scandagliava nel fondo delle viscere, e notomizzava i suoi pensieri, m’avrebbe certo, alla prima occasione, messo in un posto da essere ucciso sicuramente. Già egli disapprovava la mia condotta verso il colonnello Tichter