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— Non si tratta che di ciò? gridai io, tirando da parte Alberto e suo padre e mettendomi alla finestra a mia volta.

Poi, indirizzandomi a quell’onesto pubblico ed al suo organo officiale:

— Tu la pigli grossa, sclamai, cioè, voi v’ingannate, signor funzionario. Il general Ribotti, a quest’ora, digerisce, fuma, beve e se la batte in ritirata con i nostri valorosi fratelli di Sicilia. Io sono il marchese di Tregle, deputato al Parlamento e mi reco alla Camera.

— Voi andate dunque alla Camera per le vie scorciatoie? osservò l’arciprete della Comune.

— Vegliardo, risposi io con prosopopea, imparate che tutte le strade sono buone, quando conducono l’uomo a compiere il suo dovere. Io mi reco alla Camera... erborizzando per le vostre montagne.

— Ah! voi fate della botanica in assisa d’insorto!

— Oh che? andreste per avventura a cercarmi taccole adesso sul taglio e la moda del mio abito? Augusto vecchio, apprendete che questo qui è proprio l’uniforme dei membri del Parlamento della regina Vittoria.

— Ohibò! ohibò! egli è il generale Ribotti; lo si conosce, lo si è visto. In prigione, alla ghigliottina! Consegnatecelo, o metteremo fuoco alla porta della casa.

— Piano, eh! dissi io....

E qui, via! mi misi ad improvvisare uno speech serio. Era proprio serio? Nol so, per dio. Ma insomma, parlai. M’interruppero. Io dimandai il silenzio e l’ordine. Mi fischiarono. Ripresi la parola. Mi gettarono dei limoni. Io li presi al volo e continuai.