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Io aveva riconosciuto nella folla un giovane chiamato Galvani, un dì mio compagno di studi a Napoli. Questo ragazzo gridava, a rompersi le costole, che io non era mica il Ribotti, che io era il marchese di Tregle, quando il ciabattino si slanciò su di me. Galvani arrivò a tempo per ritenere il braccio dell’assassino; di guisa che non vi ebbe altra disgrazia, che una bella fessura alla mia bella assisa.

Allora la guardia civica, che si era infine aperta una via, mi circondò:

— Gli è meglio che andiate in prigione, mi susurrò all’orecchio Galvani. Quivi, sarete salvo.

Io parlai, protestai, presi a testimonio uomini e bestie, sulla violenza che si adoperava contro un rappresentante della nazione che recavasi al Parlamento, e rotolai, o piuttosto mi rotolarono verso la prigione.

Ed eccomi là.

Non era proprio la prigione ove mi avevano condotto — quelle prigioni di Calabria ove una palla di cannone prenderebbe una flussione di petto e la febbre putrida! M’installarono nel corpo di guardia; al primo piano. Io avevo una guardia che faceva sentinella alla mia porta.

Appena in gattabuia, io rifaceva il nodo della mia cravatta innanzi ad un vetro, quando il capitano della guardia civica si presentò. Si chiamava don Prospero. Era un informe cubo di carne: non braccia, non gambe, non collo. Una zucca popona, mitragliata dal vaiuolo, tenevagli luogo di testa. Dei mustacchi più formidabili di quelli di Vittorio Emanuele. Gli occhiali verdi nascondevano gli occhi. Le falde dell’uniforme a coda di rondine, aprendosi, mostravano i rattoppi ed i rabberci delle sue brache. Un naso