Le notti degli emigrati a Londra/Il marchese di Tregle/II
Questo testo è completo. |
◄ | Il marchese di Tregle - I | Il marchese di Tregle - III | ► |
II.
La pianura era animata da piccoli gruppi di gente, ciascuno dirigendosi verso il suo paese; e non so se non gridassero già: Viva il re! Ognuno aveva attaccato al suo fucile una pelle di montone e le sue scarpe. Le scarpe, per i contadini dell’Italia meridionale, sono un oggetto di lusso, un arnese di parata. I più arditi erano rimasti un po’ indietro.... per raccogliere delle casserole, delle pignatte, della roba infine. Lo spettacolo diventava lugubre e ridicolo. Eccolo già deserto questo accampamento, ove i fuochi ardevano ancora, ove un momento prima una gente spensierata cucinava la sua pappa. Le capanne di felci e di rami, vôte; gli utensili rotti, sparsi per terra; tutto devastato, nudo, bruciato. E nella pianura, uomini di grande statura, dalla bruna carnagione, dai lineamenti pronunziati, fatti da Dio per compiere delle grandi cose, che se ne vanno al passo ginnastico, col nastro tricolore sui loro cappelli puntuti, non rimpiangendo altro che la minestra mancata. Dal canto loro, i realisti si affrettavano ad arrivare: l’odore dell’arrosto infondeva loro del coraggio.
Io presi lo stradale, alla grazia di Dio, non conoscendo il paese, nè sapendo ove dirigermi. A Spezzano Albanese, incontrai il Consiglio municipale di Cosenza ed il vescovo, i quali, due giorni prima, avevano gridato: Viva la Costituzione, abbasso i Borboni! Essi si recavano ora a presentare i loro omaggi ai generali Du Carne e Busacca. Monsignore mi diede per cortesia la sua benedizione, sbirciando il mio cavallo che, quindici giorni prima, egli aveva offerto per la salute della patria. Io non aveva agio di raccogliere delle benedizioni. Avevo fretta. Non potendo continuare sulla strada di Cosenza, presi il cammino delle montagne dei miei Albanesi. La mia ordinanza, vedendo che non vi era più nulla a spigolare con me, rimase un po’ indietro, poi si smarrì col mio sacco da notte, in cui vi era un po’ di danaro e alcune camicie. E non ne ebbi più nuove. Gli Albanesi mi seguirono bravamente e fedelmente. Essi avrebbero potuto assassinarmi e essere nominati cavalieri dell’ordine del Merito civile.
La notte era caduta. Noi c’ingolfammo in mezzo alle montagne, incontrando di qua di là dei fuggiaschi, i quali, avendo nascosto i loro fucili, se ne ritornavano ai loro villaggi, come se venissero dalla mietitura. Io passai per boschi di castagno, per oliveti magnifici. Il rumore dei ruscelli animava il silenzio della notte. Un leggiero venticello dava alle foglie una voce lamentevole. La luna non era ancora sorta, ma un numero immenso di stelle spandeva la debole e pallida luce di certi giorni nella Svezia. I viottoli erano orribili. Le lucciole venivano ad urtarsi storditamente al nostro viso.
Traversammo alcuni poveri villaggi e qualche casolare senza fermarci. Gli abitanti dormivano per terra, davanti le loro porte aperte, per sottrarsi agl’insetti che, di dentro, li avrebbero divorati. Niente di più cupo, di più desolato: un tale uomo, su di una simile terra, sotto un simile cielo! I cani abbaiavano un poco senza incomodarsi, e poi si riaddormentavano. Di tratto in tratto una donna, quasi nuda, sollevava il capo dalla soglia della sua porta che le serviva di guanciale, e ci chiedeva l’elemosina. I fanciulli ed i maiali dormivano nelle braccia gli uni degli altri — quando il maiale non mangiava il fanciullo. L’asino vigilante, presiedeva la tribù, il clan.
A misura che noi salivamo queste alture della catena degli Appennini, la brezza diveniva più fresca, il cielo più sereno, il silenzio più completo. Entravamo nella regione dei pini, degli abeti, degli olmi, dei frassini secolari. Il sentiero si perdeva. Noi camminavamo guidandoci sulle stelle.
A mezzanotte, sorse la luna. Lo spettacolo incominciava a divenire seducente. Gli abeti, rivestiti di bianche corteccie, prendevano l’aspetto di scheletri, di statue di marmo, di fantasmi avvolti in bianchi lenzuoli, secondo la loro posizione e il riflesso della luna che li rischiarava. I vecchi tronchi bruciati somigliavano sentinelle poste in imboscata. La luce, stacciata dalle foglie, pareva coprire il suolo d’un bianco merletto steso sopra un panno verde. Dei raggi di neve scintillavano sulle alte cime, e niellavano d’argento il granito rossiccio degli erti picchi. Gli alberi immensi, qui scarni, là fronzuti, varii, oltraggiati dalla mano dell’uomo e del tempo, colti dal fulmine e squarciati dagli uragani, davano al luogo qualche cosa di fantastico.
L’aere era imbalsamato d’un profumo indefinibile. La campanella attaccata al collo delle vacche e delle pecore — che nella state pascolano all’aria libera su questi monti — tintinnava da lontano, dall’altra parte della montagna, e riempiva l’animo di tristezza. Questo suono patriarcale risvegliava in me il ricordo del mio focolare, di mia madre, della mia innamorata. Lepri, volpi, conigli, cerbiatti, capriuoli, gatti selvatici, scappavano davanti i nostri passi. Il cuculo si lamentava stupidamente.
Più noi salivamo, più il bosco diveniva fitto e spesso, e meno la luna vi penetrava, sì che io camminava a piedi, non potendo più restare a cavallo, a causa dei rami intrecciati che intercettavano il cammino. Tutto ad un tratto, nel girare un picco, che non avevamo asceso, fui sorpreso da un magnifico spettacolo.
Dapprima una voce, uscendo non so da qual luogo, gridò: chi è là? chi vive?
I due Albanesi si volsero verso di me, non sapendo che rispondere.
— Viva la patria! gridai.
Io sapeva che i soldati di Sua Maestà Siciliana non annidavano sì alto il loro coraggio e la loro devozione, e che questi imboscati non potevano essere che bande d’insorti, o briganti dispersi, cioè degli amici. Il brigante parteggia sempre: ieri, per la repubblica, oggi per il re, sempre per colui o per ciò che non è più.
— Avanzate, rispose la voce.
L’uomo era invisibile.
Sopra una specie di piattaforma, dei frassini secolari s’innalzavano ad una altezza prodigiosa, il tronco bianco e pulito, somigliante a delle colonne; i rami e le foglie coprivano il luogo d’un baldacchino magnifico. Si sarebbe detto la moschea di Cordova tappezzata di lampasso verde. Una dozzina di fuochi immensi, là disseminati, crepitavano gioiosamente, e facevano come una corona al fuoco di mezzo più considerevole degli altri. Attorno a questi roghi vi erano degli uomini che, al grido di chi vive! si erano tutti alzati. Essi mi parvero dei giganti. Il riverbero spiccato delle fiamme, addolcito dal lume della luna, dava a questi uomini una statura colossale, cui la foggia del vestito e l’atteggiamento rilevavano potentemente. Tutti avevano preso le armi che scintillavano a questo barlume. Questi cacciatori del Signore, vestiti di grosso velluto nero, portavano delle uose di panno sino a mezza coscia. Un panciotto di velluto a bottoni di argento si apriva in sul petto: una larga fascia di tela di cotone, a righe bianche e rosse, raddoppiata a parecchi giri, stringeva loro la vita. Sul loro capo civettava un piccolo cappello a punta, adorno di molti nastri e di penne di pavone, inclinato su l’orecchio destro, e ritenuto sotto il mento da un cordone. Il collo nudo, il colletto della camicia leggermente rovesciato. Questi uomini avevano un aspetto di straordinaria virilità. Degli occhi, che avrebbero fuso le monete d’oro d’un avaro. Senza baffi; delle basette enormi, nere come le notti di dicembre. Il tipo greco, indorato al colore indiano. Le loro labbra respiravano ogni specie d’ebbrezza, ogni specie di appetiti: dei denti bianchi come il marmo di Carrara. Alla cintura, dei coltelli; in bandoliera, una scatola di cuoio per mettervi le cartuccie, un bicchiere di latta, una piccola otre di pelle per il vino.
Io mi sentii sotto una potenza magnetica inesprimibile quando tutti questi occhi si appuntarono su di me. Nessuno più pensava alla cena che arrostiva, sotto forma di agnelli, davanti a questi focolari improvvisati. La fiamma rischiarava di giù in su queste singolari figure, mentre la luce cenerea della luna li bagnava d’alto in basso, producendo in questo contrasto un effetto sorprendente, un vigore di tinte, una potenza di riflessi, di angoli, di rimbalzi, di ombre, che nessuna tavolozza, niun ingegno saprebbero riprodurre. Io restai abbarbagliato. I miei due Albanesi, abituati a questi quadri, dettero allora la parola d’ordine, nella loro lingua. Gli amici, riconoscendoli, gridarono di una sola voce:
— Siate i benvenuti, fratelli!
E sedettero di nuovo sul suolo, allestendosi a sparecchiare la cena.
Dal fuoco di mezzo si staccarono allora due uomini: uno che tennesi a due passi indietro, la mano sulle pistole della sua cintura; l’altro che procedè incontro a me. E’ mi sbirciò un momento, poi sciolse il suo mantello e mi stese le due mani. Io riconobbi il mio amico, il colonnello Costabile Carducci.
Questo bravo, nobile, disinteressato patriotta — oggi obliato dai martiri scialosi rimpinziti — aveva spigolato una sessantina di Albanesi, e con questo manipolo di gente determinata, recavasi nel Cilento per ravvivarvi l’insurrezione. Io provai condurlo meco in Basilicata. Ricusò — ed e’ fu il suo cattivo od il mio buon genio che se ne mischiò.
Carducci mancò il suo intento.
Una sera, egli andò a dimandare ospitalità al suo vecchio amico, il prete Peluso di Sapri. Questo manigoldo l’accolse a braccia aperte; poi, la notte, quando Carducci dormiva, e’ s’introdusse nella camera di lui, l’uccise e gli tagliò il capo.
Peluso adagiò quindi bellamente questa testa in una cassetta di latta, la contornò di bambagia e di una pezzuola di seta bianca, e corse a Napoli per presentarla a re Ferdinando. Era la seconda — e non fu l’ultima — cui S. M., aveva la delizia di contemplare e di mostrare alla regina ed alla sua progenitura. Il prete Peluso restò nella reggia per sollazzare i piccoli principi, abbeverar di benedizioni l’austriaca regina e manipolare, a parte col re, negozi di danari lucrosissimi.
Il compagno di Carducci era il barone Porcari, il quale, avendo passato tutta la sua vita negli ergastoli per delitti politici, s’annoia a Napoli oggidì. E’ trova che vi è troppo sole, troppa aria, troppo spazio, troppi visi, troppa folla. La libertà lo inceppa, un letto lo tedia, una figura ridente lo fa trasecolare. Egli sospira il suo sotterraneo come la talpa; ha la nostalgia della galera e della secreta.
Io lasciai questi due amici dopo la cena. Io era ammalato. Andai a sdraiarmi sur un letto di felci odoranti e di mantelli che i miei aiducchi mi avevano apparecchiato.
Quando apersi gli occhi all’indomani,..... gli uccelli cantavano, il fiore espirava i suoi profumi voluttuosi, gl’insetti dai vivi colori volteggiavano nell’aria, un leggiero velo di vapore copriva di una garza arancio il mondo circostante, le foglie immobili scintillavano di una luce castamente soffice.
Mi levai di botto.
Carducci e gli Albanesi se l’avevano spulezzata alle due del mattino.
Guardai a me d’intorno. Sugli spaldi della montagna, gli alberi magnifici della foresta come un esercito di giganti, e lontano, lontano, a traverso il colonnato delle betulle, scorsi come una coppa d’oro, tuffata nell’azzurro e corruscante come la clamide del monte Bianco — il mare. Restai una mezz’ora ad inebriarmi di questa armonia della natura. Poi Spiridione, il più attempato dei miei Albanesi, che sapeva tutto codesto a menadito, mi riscosse, presentandomi il mio cavallo allestito di tutto punto.
Partimmo.