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Guardai a me d’intorno. Sugli spaldi della montagna, gli alberi magnifici della foresta come un esercito di giganti, e lontano, lontano, a traverso il colonnato delle bettule, scorsi come una coppa d’oro, tuffata nell’azzurro e corruscante come la clamide del monte Bianco — il mare. Restai una mezz’ora ad inebriarmi di questa armonia della natura. Poi Spiridione, il più attempato dei miei Albanesi, che sapeva tutto codesto a menadito, mi riscosse, presentandomi il mio cavallo allestito di tutto punto.

Partimmo.


III.


Non avendo più nulla a fare in Calabria, pensai ritornare in casa di mia madre, in una provincia più centrale ove sono le nostre terre. Imboccammo dunque la via, la più corta e la più sicura, quella del mare. Io aveva delle conoscenze in questa provincia, che potevano, credevo, facilitare la mia fuga e sottrarmi ai realisti. La disfatta, o per dir meglio, la rotta, aveva in ventiquattro ore cangiati in realisti gli uomini i più ardenti della vigilia, e costoro raddoppiavano adesso di zelo onde farsi perdonare dal re il loro amoruccolo di un dì per la libertà. La guardia civica ed i gendarmi inondavano la contrada, tendendo contro noi delle trappole, mentre i patrioti di ieri si trasformavano in segugi. Ogni passo divenne un pericolo. Ma, per ventura, i miei ex-bri-