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solare senza fermarci. Gli abitanti dormivano per terra, davanti le loro porte aperte, per sottrarsi agl’insetti che, di dentro, li avrebbero divorati. Niente di più cupo, di più desolato: un tale uomo, su di una simile terra, sotto un simile cielo! I cani abbaiavano un poco senza incomodarsi, e poi si riaddormentavano. Di tratto in tratto una donna, quasi nuda, sollevava il capo dalla soglia della sua porta che le serviva di guanciale, e ci chiedeva l’elemosina. I fanciulli ed i maiali dormivano nelle braccia gli uni degli altri — quando il maiale non mangiava il fanciullo. L’asino vigilante, presiedeva la tribù, il clan.

A misura che noi salivamo queste alture della catena degli Appennini, la brezza diveniva più fresca, il cielo più sereno, il silenzio più completo. Entravamo nella regione dei pini, degli abeti, degli olmi, dei frassini secolari. Il sentiero si perdeva. Noi camminavamo guidandoci sulle stelle.

A mezzanotte, sorse la luna. Lo spettacolo incominciava a divenire seducente. Gli abeti, rivestiti di bianche corteccie, prendevano l’aspetto di scheletri, di statue di marmo, di fantasmi avvolti in bianchi lenzuoli, secondo la loro posizione e il riflesso della luna che li rischiarava. I vecchi tronchi bruciati somigliavano sentinelle poste in imboscata. La luce, stacciata dalle foglie, pareva coprire il suolo d’un bianco merletto steso sopra un panno verde. Dei raggi di neve scintillavano sulle alte cime, e niellavano d’argento il granito rossiccio degli erti picchi. Gli alberi immensi, qui scarni, là fronzuti, varii, oltraggiati dalla mano dell’uomo e del tempo, colti dal fulmine e squarciati dagli uragani, davano al luogo qualche cosa di fantastico.