Le notti degli emigrati a Londra/Il marchese di Tregle/I
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IL MARCHESE DI TREGLE
I.
Eppure è vero!
..... Sono oramai undici anni, disse Tiberio, marchese di Tregle, ponendo il suo bicchiere sulla tavola ed asciugandosi i baffi che incominciavano ad incanutire. Era il 1848. Sua Maestà siciliana aveva fatto mettere alla porta il suo Parlamento dai suoi Svizzeri, mitragliare il suo popolo dal suo esercito e coricare sotto lo stato d’assedio il suo reame. Io era insorto. Era la moda di quell’anno, del resto. Io mi trovava in Calabria.
In mia vita non ho mai esercitato un mestiere più dolce e più gradevole di quello d’insorto. Non ho mai tanto dormito. Non ho mai tanto goduto della beatitudine della postura orizzontale, quanto durante il tempo in cui sono stato rivoluzionario fra le bande calabresi. Avrei potuto dettare dei versi, se le mosche me l’avessero permesso.
Questo insetto arrogante scompigliava le mie rime.
Noi eravamo duemila bellimbusti, e occupavamo la gola formidabile che separa la provincia di Basilicata da quella di Cosenza, alla testa del ponte di Campotenese. Questi due mila messeri non avevano preso affatto la cosa sul serio, non comprendendola guari. Essi non erano insorti per alcuno interesse speciale. Passavano dunque le loro giornate a giuocare alle carte, a dar la caccia ai pidocchi di cui formicolavano e ad arrostire dei montoni — montoni naturalmente realisti. Essi erano poco o niente pagati e pieni di abnegazione.
I soldati di Sua Maestà, dall’altra parte del ponte, occupavano i loro ozi presso a poco nella stessa guisa. Solamente, come diversione, essi scorrevano di quando in quando pei villaggi, si facevano servire dai contadini, e pagavano a colpi di calcio di fucile.
Il generale Busacca, che comandava questa colonna mobile, stanziava a Castrovillari. Questo generale sarebbe pur stato il più feroce e brutale ubbriacone del suo secolo, se Gregorio XVI non lo avesse preceduto. Egli si coricava fra due bottiglie, quando non cadeva, messo fuori di combattimento, sopra un campo di battaglia seminato di orciuoli e di fiaschetti di ogni forma. Busacca non avrebbe giammai punito un soldato che si fosse divertito a bastonare un contadino. Se incontrava un soldato ubbriaco fracido, egli dimandava a sè stesso se non bisognasse proporlo per la decorazione dell’ordine di Francesco I. In ogni caso, lo citava nei suoi ordini del giorno.
«Ei si ubbriaca, diceva Busacca, dunque egli è bravo! Sua Maestà, che è un guerriero, va matto per i buoni soldati».
Non vedendosi attaccato da noi, Busacca non si curava punto di mettere un termine a questa vita di cuccagna. I gesuiti gli avevano insegnato il famoso: cunctando restituit rem.
Noi godevamo dunque della più perfetta tranquillità. D’altronde, io non so proprio perchè noi eravamo insorti, facendo quello che si faceva. I nostri uomini davano la caccia al gregge dei realisti. Costoro fucilavano, impiccavano, incarceravano tutti quelli dei nostri che loro cadevan tra le mani.
Il capo nominale della spedizione era un tale Pietro Mileto, un vegliardo che aveva una magnifica testa da patriarca e bestemmiava e mentiva, come l’aveva fatto, in un giorno memorabile, l’apostolo suo patrono. Spendeva le sue giornate in dispute con il suo domestico, quando non cantarellava un’aria favorita, ch’egli aveva appresa al bagno. Poichè questo eccellente patriota aveva roso la sua catena venticinque anni al bagno di Nisida, per delitto politico.
Diciamolo qui: Mileto perì miserabilmente. Dopo la nostra disfatta, una banda di zingari lo scoprì travestito da mendicante, e gli mozzò il capo onde guadagnare il prezzo di cinque mila ducati, — 22,250 franchi, — cui re Ferdinando l’aveva valutato. Questa testa fu inviata a Sua Maestà nella sua reale residenza di Gaeta. Lo scaltro monarca, che aveva delle ragioni per sospettare la fedeltà del suo ministro Bozzelli, tre volte rinnegato, armò il suo occhio di occhialino, si circondò della sua numerosa nidiata di bimbi rachitici, e restò durante qualche minuto a contemplare, a girare e rigirare quella povera testa, per bene assicurarsi della sua autenticità, prima di sborsarne il valsente.
Nella mia qualità di dilettante, mi avevano attaccato allo stato maggiore. Io portava una sciabola formidabile, due pistole, un pugnale, che mi serviva a trinciare le mie costolette, una casacca di velluto nero, un cappello all’Ernani con galloni d’oro, e brache di fantasia. Che cosa non avrei io dato per avere una sciarpa rossa intorno alla mia vita sottile! Avrei avuto l’aria più da trovatore. Io aveva al mio servizio, in qualità di ordinanza, un Siciliano che si vantava di essere stato pasticciere, ma che era, in realtà, un perfetto predatore, uno snidatore di ogni specie di selvaggina. Avevo inoltre, come domestici, due Albanesi, alti cinque piedi e dieci pollici, di cui comprendevo appena qualche parola. Erano stati briganti nella banda di Talarico, è vero, ma sapevano cuocere in punto una braciuola, imbiancare e stirare la biancheria sì da invogliare una duchessa a confidar loro i suoi merletti. Sono i soli famigliari fedeli ch’io mi abbia mai avuto in mia vita.
Io aveva vissuto quindici giorni in questa gradevole posizione, non udendo altri colpi di fucile, che quelli tirati contro le lepri, e non vedendo altri nemici che le vipere. Noi eravamo, noi altri capi, tutti fraternamente riuniti in un fortino costruito dai briganti, in cima ad un rialzo, — un ridotto druidico, — circondato di pietre ciclopiche.
Su questo recinto si era intessuto un pergolato di rami e di foglie per ripararci dal sole di luglio. Le nostre coperte, i nostri mantelli, stesi sul suolo, ci servivano di tappeto, di tovaglia, di tovagliolo, di materasso. Coricato supino durante tutto il tempo che non restavo seduto per pranzare, io contemplava, a traverso i buchi del soffitto, il cielo eternamente e monotonamente azzurro.
Il nostro pranzo ordinario si componeva di un montone o di un piccolo vitello infilzato allo spiedo, cioè a dire ad un ramo d’albero acuminato. Gli ex-briganti, divenuti cittadini, difensori della legalità e della Carta, erano i nostri cucinieri, i nostri guerrieri, le nostre cameriere, i nostri domestici. Gli altri contadini sembravano stupidi. Non ebbi affatto l’occasione di sperimentare se erano buoni ad altra cosa.
Un giorno, verso le cinque della sera, le nostre bande manipolavano la loro cena, quando, tutto ad un tratto, si spande il rumore che il generale Du Carne ci prendeva ai fianchi.
Il nostro comandante in capo aveva tutto previsto per custodire la porta; non si era punto curato delle finestre. Ora, i realisti, avendo convenevolmente divorato il paese fedele, sguizzavano adesso per i fianchi e venivano a ficcare il naso nelle nostre pentole. Vedendo che il nemico penetrava per Normanno e per Torraca, alla nostra destra e alla nostra sinistra, noi trovammo che il nostro mestiere diveniva una sinecura, e lasciammo degnamente il posto.
Forse lo lasciammo un po’ al passo accelerato. Ma ciò è un affare di ginnastica. Forse avremmo dovuto difenderci. Non ci si pensò guari: non si può pensare a tutto; e d’altronde, perchè incomodarci? Il fatto è che noi partimmo. Io fui, per pigrizia, uno degli ultimi a sloggiare, con i preti e i cappuccini, che facevano parte della colonna rivoluzionaria. Ve ne erano sessantacinque; essi ed i briganti si sarebbero certamente ben battuti.
Sellato il mio cavallo, l’ordinanza e i miei Albanesi pronti:
— Ove andiamo, capitano? mi dimandò il mio Siciliano.
— Al diavolo: tu lo vedi! gli risposi.
— Sì, al diavolo, mio capitano, ma per quale strada?
— Per la più corta.
— Per andar dove, infine?
— Per bacco! ove vanno gli altri.
— Ma, capitano, mi sembra che gli altri fuggono.
— Ah! e tu vuoi dunque rimanere, insubordinato?
— Giammai, mio capitano.
— Avanti allora, e abbasso chi cade, e viva chi è in auge!