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L’aere era imbalsamato d’un profumo indefinibile. La campanella attaccata al collo delle vacche e delle pecore — che nella state pascolano all’aria libera su questi monti — tintinnava da lontano, dall’altra parte della montagna, e riempiva l’animo di tristezza. Questo suono patriarcale risvegliava in me il ricordo del mio focolare, di mia madre, della mia innamorata. Lepri, volpi, conigli, cerbiatti, capriuoli, gatti selvatici, scappavano davanti i nostri passi. Il cuculo si lamentava stupidamente.

Più noi salivamo, più il bosco diveniva fitto e spesso, e meno la luna vi penetrava, sì che io camminava a piedi, non potendo più restare a cavallo, a causa dei rami intrecciati che intercettavano il cammino. Tutto ad un tratto, nel girare un picco, che non avevamo asceso, fui sorpreso da un magnifico spettacolo.

Dapprima una voce, uscendo non so da qual luogo, gridò: chi è là? chi vive?

I due Albanesi si volsero verso di me, non sapendo che rispondere.

— Viva la patria! gridai.

Io sapeva che i soldati di Sua Maestà Siciliana non annidavano sì alto il loro coraggio e la loro devozione, e che questi imboscati non potevano essere che bande d’insorti, o briganti dispersi, cioè degli amici. Il brigante parteggia sempre: ieri, per la repubblica, oggi per il re, sempre per colui o per ciò che non è più.

— Avanzate, rispose la voce.

L’uomo era invisibile.

Sopra una specie di piattaforma, dei frassini secolari s’innalzavano ad una altezza prodigiosa, il tronco