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vamo insorti, facendo quello che si faceva. I nostri uomini davano la caccia al gregge dei realisti. Costoro fucilavano, impiccavano, incarceravano tutti quelli dei nostri che loro cadevan tra le mani.

Il capo nominale della spedizione era un tale Pietro Mileto, un vegliardo che aveva una magnifica testa da patriarca e bestemmiava e mentiva, come l’aveva fatto, in un giorno memorabile, l’apostolo suo patrono. Spendeva le sue giornate in dispute con il suo domestico, quando non cantarellava un’aria favorita, ch’egli aveva appresa al bagno. Poichè questo eccellente patriota aveva roso la sua catena venticinque anni al bagno di Nisida, per delitto politico.

Diciamolo qui: Mileto perì miserabilmente. Dopo la nostra disfatta, una banda di zingari lo scoprì travestito da mendicante, e gli mozzò il capo onde guadagnare il prezzo di cinque mila ducati, — 22,250 franchi, — cui re Ferdinando l’aveva valutato. Questa testa fu inviata a Sua Maestà nella sua reale residenza di Gaeta. Lo scaltro monarca, che aveva delle ragioni per sospettare la fedeltà del suo ministro Bozzelli, tre volte rinnegato, armò il suo occhio di occhialino, si circondò della sua numerosa nidiata di bimbi rachitici, e restò durante qualche minuto a contemplare, a girare e rigirare quella povera testa, per bene assicurarsi della sua autenticità, prima di sborsarne il valsente.

Nella mia qualità di dilettante, mi avevano attaccato allo stato maggiore. Io portava una sciabola formidabile, due pistole, un pugnale, che mi serviva a trinciare le mie costolette, una casacca di velluto nero, un cappello all’Ernani con galloni d’oro, e bra-