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che di fantasia. Che cosa non avrei io dato per avere una sciarpa rossa intorno alla mia vita sottile! Avrei avuto l’aria più da trovatore. Io aveva al mio servizio, in qualità di ordinanza, un Siciliano che si vantava di essere stato pasticciere, ma che era, in realtà, un perfetto predatore, uno snidatore di ogni specie di selvaggina. Avevo inoltre, come domestici, due Albanesi, alti cinque piedi e dieci pollici, di cui comprendevo appena qualche parola. Erano stati briganti nella banda di Talarico, è vero, ma sapevano cuocere in punto una braciuola, imbiancare e stirare la biancheria sì da invogliare una duchessa a confidar loro i suoi merletti. Sono i soli famigliari fedeli ch’io mi abbia mai avuto in mia vita.

Io aveva vissuto quindici giorni in questa gradevole posizione, non udendo altri colpi di fucile, che quelli tirati contro le lepri, e non vedendo altri nemici che le vipere. Noi eravamo, noi altri capi, tutti fraternamente riuniti in un fortino costruito dai briganti, in cima ad un rialzo, — un ridotto druidico, — circondato di pietre ciclopiche.

Su questo recinto si era intessuto un pergolato di rami e di foglie per ripararci dal sole di luglio. Le nostre coperte, i nostri mantelli, stesi sul suolo, ci servivano di tappeto, di tovaglia, di tovagliolo, di materasso. Coricato supino durante tutto il tempo che non restavo seduto per pranzare, io contemplava, a traverso i buchi del soffitto, il cielo eternamente e monotonamente azzurro.

Il nostro pranzo ordinario si componeva di un montone o di un piccolo vitello infilzato allo spiedo, cioè a dire ad un ramo d’albero acuminato. Gli ex-briganti, divenuti cittadini, difensori della legalità