Le murate di Firenze/Cap. XXXI: Settima veduta e fine del sogno

Cap. XXXI: Settima veduta e fine del sogno

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Cap. XXXI: Settima veduta e fine del sogno
Cap. XXX: Sesta veduta
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CAPITOLO XXXI.

Settima veduta e fine del sogno.


Questa volta non era una stanza che mi si mostrava, ma invece un magnifico grandioso teatro. In mezzo al sipario che copriva il palco scenico, erano scritte a lettere cubitali miniate d’oro, le seguenti parole:


IL TERRIBILE CASTIGO

CON CUI LA DIVINA GIUSTIZIA PUNISCE

I CALUNNIATORI E GLI SPERGIURI

— Vuoi tu vedere la scena? dimandommi il genio.

— Sì! la vedrò volentieri.

Il vecchio distese e allungò il braccio destro, e colla mano prese un bellissimo nastro di seta cremisi, fregiato e messo a oro, che pendeva lungo uno stipite della porta, e lo squillo di un campanello si fece tosto sentire nell’interno delle scene. D’un tratto s’alza il sipario e mi si presenta agl’occhi una scena così spaventevole e orribile, che a sol ricordarla mi sento nell’anima un brisciamento, un ribrezzo ch’io ne tremo a verga a verga.

Due uomini eran sotto il tremendo gastigo; uno aveva scritta in fronte la parola: — Il calunniatore — l’altro la parola: — Lo spergiuro.

A’ piedi del calunniatore si rizzavano due enormi serpenti, i quali aggraticciandosi, avviticchiandosi, intrecciati su per le gambe e pel corpo dell’infelice, gli uscivano un per lato alle spalle, si elevavano minacciosi sopra il di lui capo schizzando fuoco dagl’occhi, e arruotando ringhiosi acutissimi denti; e mentre il [p. 89 modifica] misero tremebondo e disperato dibattevasi fra le gagliarde strette di quelle salde e robuste spire, i due serpenti rinnannellandosi al collo, e inarcando il dorso, gli si avventarono rabbiosi al cranio, e sì furiosamente lo addentavano e rodevano, che sotto quei fieri morsi si sentiva scrosciare come fosse una secca crosta di pane. Il sangue spicciava a sprazzi dal dilaniato capo, e misto alla immonda bava dei serpenti, filava giù a gran copia fino a terra, ove impozzando aggrumava. Il cervello, già in gran parte scoperto, si vedeva roso e sbrizzato ricascare palpitante ancora, sospeso a filamenti membranosi, e coi grommi del sangue appiastrarsi agl’irti capelli.

Ma perchè forse quello strazio era scarsa pena alle colpe di quello sgraziato, a colmo di tormento gli usciva con veemenza dalla gola ardentissima una fiamma, la quale invisibilmente alimentata, gli avviluppava e investiva la lingua atrocemente cuocendola.

A breve distanza dal calunniatore era fitto nel pavimento un toppo, la di cui altezza poteva dare a mezza vita d’uomo; sopra il toppo era posto a schisa, e prolungato ad angolo semiretto fino a terra, un massiccio pancone, sul quale era disteso supino lo spergiuro. Conficcato il misero su quel legno da un lungo e grosso chiodo, che gli traforava il capo, da due altri che gli chiavavan le mani, e da un terzo che gli trapassava i piedi, era costretto a soffrire immobile tutta la forza dell’orribile tormento, con cui la Divina giustizia lo torturava, perchè ogni piccolo movimento, anche un fremito solo, il martirio gli accresceva e addoppiava.

La di lui lingua, che pareva fosse stata divelta e sradicata dalle fauci, era tutta fuori della bocca, e stava sottoposta ad una lampana infocata, dalla quale [p. 90 modifica]gocciolavano globi di ardentissimo fuoco, che cadendo infiammati sulla lingua vi friggevano sopra scoppiettando, come il lardo bollente che gocciola sulle carni arrosto, pillottate. A questi, tormenti un altro se ne aggiungeva non men doloroso e atroce: tutta la regione del torace aveva quel misero schiantata e aperta; le coste violentemente sollevate e spinte a ritroso contro la schiena, erano fiaccate e rotte presso la spina dorsale, e pendevano cascanti ai lati come due sportelli aperti; il cuore spogliato e tratto fuori del pericardio palpitante e scoperto trabalzava violento sotto i morsi di due topacci voracissimi, che spietatamente lo rodevano e dilaniavano.

E perchè il tormento di questi due infelici non sminuisse e perdesse mai di intensità e di forza, una virtù secreta prodigiosamente operava che le lacerate membra non si sperdessero, ma si riproducessero invece e ritornassero vivissime sotto l'avido dente che le straziava. Così il fuoco che ardentemente bruciava e coceva le lingue non le consumava, non le distruggeva mai, ma la parte investita sempre e vivamente tormentava.

Bastava volgere uno sguardo su quella scena di terrore, perchè un freddo e tremor mortale la vita tutta scorresse, e da sbigottimento estremo fosse l'anima compresa. Il dolore, la disperazione che grandemente, energicamente spiccava in tutta la persona dei flagellati, mentre accresceva il terrore di quella scena, faceva anche altamente sentire compassione e pietà. Gl’occhi avevano paurosamente stravolti e schizzati, le ciglia ad arco acuto violentemente alzate, la fronte profondamente corrugata e contratta, la bocca orribilmente spalancata, il collo rientrato e rattratto, il petto inarcato e sporto, ritirato il ventre alle reni, rilevati e [p. 91 modifica]raggruppati i muscoli, grossi tutti e tesi i nervi, dal capo ai piedi, per la vita, in terra vivissimo e copioso il sangue. Ahi miserando spettacolo! E l’uom non teme la vostra giustizia, o Dio?

Mentre esterrefatto e silenzioso quella orribile scena contemplava, il Genio incominciò:

— Vedi come Dio punisce la calunnia e lo spergiuro? In questa terra di miserie nulla vale a scansare le ire mordaci della maldicenza della calunnia: pare che l'uomo allora solo si stimi felice e contento, quando può credere, pensare, parlar male del suo simile. Si biasima e si condanna chi opera il male, perchè cattivo e dannoso; si critica, si accusa, si riprova chi opera il bene, perchè si vuole lo operi con intendimento interessato e perverso; e quanto più l'uomo si tiene e persevera onesto, giusto e buono, tanto meglio contro di lui si aguzza l'arma della calunnia, della detrazione.

La umana giustizia, o per naturale difetto, o per propria malvagità, o per vile abbominevole interesse, è spesso ingannata, o finge o vuole ingannarsi; appoggia talvolta i suoi giudizi su deposti giurati di persone che non credono e non conoscono religione alcuna; e che vale allora il giuramento? Che vale io dissi? Oh vale pur troppo a danno gravissimo e certo dello spergiuro: la scena che ti sta dinanzi te lo mostra ora meglio che io non tel dica.

Trionfa spesso in questa terra il calunniatore, il maldicente, e gode, si piace di insultare alla vittima innocenta che sacrificò all’odio suo feroce, o per un capriccio bestiale, o per un puntiglio superbo, o per invidia e ambizione, ma il trionfo sarà breve e meschino; che se la Divina giustizia rattiene qualche volta e tarda il gastigo, comportando che il peccatore per poco tempo imbaldanzisca della fortunata sua iniquità, [p. 92 modifica]non soffre però che la colpa rimanga impunita, colpisce a suo tempo il reo; e la punizione è terribile, è eterna.

Oh! A quanti che or tripudiano e giocondano, godendo soddisfatti della sventura e della umiliazione di quei miseri che diffamarono, pende in capo tremendo e certo il flagello! Oh quanti proveranno presto le atroci pene che tormentano ora quei due infelici! Eppure la detrazione è comune, la calunnia è facile, lo spergiuro non è raro; e intanto chi può misurare i danni che da queste colpe derivano? E se v’ha chi li misuri, chi può, chi vuole, chi cerca ripararli? Oh credilo; egli è vero! Calunniatore, spergiuro val quanto reprobo, dannato.

Mentre il buon Genio, con voce tuonante e tutto fuoco in viso, quei severi detti parlava, il romore che poco prima aveva sentito lontano, erasi tanto avvicinato che io distintamente intendeva schiavare e serrar gl’usci. Ma nè le parole del Genio, nè il vicino fracasso che sempre aumentava, mi avrebbero riscosso dallo sbigottimento in cui era caduto, se il vecchio, serrandomi con una mano il bavero dal mantello al collo, non mi ritornava, fortemente scuotendomi.

— Che volete? diss’io sbalordito, rivolgendomi al Genio.

— Devo lasciarti, dammi il mantello!

— Il mantello? Oh questo poi nò! E come volete...

— Dammi il mantello, ripeteva il vecchio, negando ascolto alle mie ragioni, e donandosi di strapparmelo di dosso.

Io che a niun costo voleva rimanere in camicia, e perdere quel caro oggetto, m’affrettai di opporre forza a forza, e per meglio reggere al contrasto, mi tolsi dalle spalle il mantello avviluppandolo e strettamente [p. 93 modifica]abbrancandolo con ambo le mani. Funesta risoluzione! non appena io fui svestito di quel panno, che il sipario cadde di botto, il teatro disparve, e senza saper come e da chi portato mi trovai d’un tratto in un terreno paludoso, ingombro tutto di alta e spessa sala. Con me era stato trasportato il Genio pure, e nel veloce tragitto niuno di noi aveva lasciato il mantello: qui dunque più accanita e disperata ricominciò la lotta, e sebbene in quel pantano e fra quell’erbe più faticoso, e difficile fosse il contrasto, io non mi sentiva di cedere or che vedeva farsi più certo e stringento il bisogno di possedere il contrastato mantello. Ma ben presto entrò a combattermi un nuovo nemico: dense colonne di nero e caliginoso fumo sbucaron par ogni parte, e spinte da freddo e gagliardo vento, mi si addensarono e ammucchiarono intorno portando scura notte e buio. Quel fumo anzi che caldo era freddissimo, e l’animo mi sgagliardava e le forze. Il pericolo incalzava; pochi istanti ancora ed io avrei perduto in quel fitto buio in un col mantello anche il Genio; a riparar tal danno un sol mezzo io vedeva e lo tentai. Lasciai il mantello, e nel momento istesso spiccai un salto, e m’avventai al Genio strettamente abbracciandolo alla vita.

— Voi non mi fuggirete, disperato gridai, se prima non mi lascerete il mantello.

Ma ogni mio sforzo fu invano, parchè quanto più stringeva e mi serrava al petto il Genio, tanto più egli assotigliava e sminuiva, finché divenuto come un fil di paglia fra le mie braccia vanì.

— Ah par.... e più non dissi, parchè riscossomi d’un trasalto a un forte colpo che mi tuonò all’orecchio, mi risvegliai, apersi gl’occhi, e viddi il custode che colla lanterna in mano faceva la solita visita. [p. 94 modifica]

Mi trovai tutto scoperto; nei diversi movimenti che doveva aver fatti nel mio strano, agitatissimo sogno, aveva rimosse le coperte ed eran cadute a terra. Me le tornai sopra coprendomi anche il capo, e fatto un chiocciolino, così meco stesso discorreva: — Maledetta la visita! Qui non si gode un’ora di pace neanche la notte! Se il custode avesse avuta la gotta per questa notte, era pur la bella cosa! Troncarmi il sogno in un momento così interessante è stato proprio un peccato! Avessi saputo almeno chi erano quei due disgraziati, da quanto morti, quali danni avevano cagionato! Oh se questo sbirro non veniva a destarmi colla sua ridicola, importuna visita, chi sa quante belle cose mi avrebbe mostrate e dette la mia fantasia, aiutata da quel parlantino del buon genio! Addio mantello, addio speranze! Ma che razza di sogno! dove diavolo mi sono andato a pescar tanti strambottoli? Ritorniamoci un po’ sopra, e fermiamolo bene in mente, poichè dimani voglio prenderne appunto.

Cominciai dalle mosse precisando bene, considerando e digrumando tutte le scene che aveva vedute, i discorsi che aveva sentiti, e mi figgeva tutto così bene in mente, che io poteva tenermi sicuro di non dimenticarne, di non perderne una sillaba sola.

Qui convien che io faccia osservare al mio lettore che tutto quanto ho raccontato fu assolutamente e veramente un sogno; come un sogno lo ho presentato esposto, e come un sogno amo sia ritenuto e giudicato. Gli uomini da per tutto hanno gli occhi, il naso, la bocca; i cattivi non mancano in alcuna parte del mondo; nulla dunque più facile che qualcuno conosca persone, le quali abbiano qualità fisiche e morali simili, identiche ai personaggi da me descritti. E che perciò? Vorrà forse dedurre da questo che io ho inteso parlare [p. 95 modifica]di quei tali, di quelle tali? S’ingannerebbe a partito! Io ho narrato quanto viddi, e quel che la mia matta immaginazione in quella notte mi rappresentò e nulla più. Il Genio non ricordò un nome solo, né io di questo lo richiesi mai, persuaso che quelle persone fossero di ben lontani paesi, e a me del tutto sconosciute.

Che se qualcuno si vedesse tratteggiato in questo sogno così bene al naturale da dover dire: questo è il mio ritratto maniato, qui si parla certamente di me; me ne duole infino all’anima, me ne piange il cuore; conciossiachè nei soggetti che io viddi nulla vi era di buono, di virtuoso. Se tal vi fosse, si corregga per carità, e torni a Dio prima che si avverino le terribili predizioni del buon Genio.

Fine