Le cento novelle antiche/Prefazione

Prefazione

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Le cento novelle antiche Dedica
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P R E F A Z I O N E.


Sogliono anche i più colti ed affinati ingegni volgersi indietro assai spesso a guardare curiosamente quali sono state le lettere, le arti e le scienze nel loro cominciamento: perciocchè nel paragonare lo stato nel quale esse si ritrovarono da principio con quello a cui pervenute sono al presente, rinvengono il più acconcio modo di determinare la quantità del cammino ch’esse hanno fatto verso il lor perfezionamento. A ciò si aggiunga che ad essi interviene sovente di trovare in mezzo a tanta rozzezza di che intertenere se medesimi con diletto, e dare alla mente gradito pascolo non senza loro profitto. Laonde molto sono da commendarsi coloro i quali s’adoperano nel conservare con ogni studio gli scarsi monumenti che restano a [p. vi modifica]noi di quel lor primitivo stato, affinchè non vengano meno anche questi con l’andare del tempo, e spenta non ne sia la memoria del tutto, siccome addivenuto è nel più delle cose, forse con notabile danno, e certamente con molto rammarico nostro.

Riguardano gli eruditi come uno de’ più vecchi monumenti della eloquenza italiana le Cento Novelle antiche pubblicate dal Gualteruzzi: e certo esse sono stese con sì poco d’arte e in uno stile sì semplice, che chiaramente apparisce dover essere scrittura da porsi nel novero delle più antiche che s’abbia la nostra lingua. Trovansi di queste Novelle due vecchie edizioni assai rinomate; l’una fattasi nelle case di Girolamo Benedetti in Bologna nel 1525, e l’altra senza veruna nota nè di luogo, nè di stampatore, nè d’anno, fatta anch’essa in quel torno: ma sono entrambe divenute oggidì tanto rare, che a gran fatica può venir fatto di [p. vii modifica]vederne qualche esemplare1. Ben è vero che un’altra, di molto nome ancor essa, ne procurò in Firenze nel 1572 monsignor Vincenzo Borghini, e che questa fu seguitata da tante altre dipoi, che il libro delle Cento Novelle antiche or è divenuto cosa affatto comune: ma, qualunque la cagion se ne fosse, il Borghini tali cangiamenti ci fece dentro in più luoghi, che molto diverso il rendè da quello di prima. Per non far menzione veruna delle varietà che ci si trovano di tratto in tratto nella lezione, solo dirò che intere Novelle se ne tolsero via, ed altre, diverse d’argomento e di stile, ne furono in luogo di quelle sostituite: i quali cangiamenti dipoi si ritennero nelle altre impressioni.

A Dio non piaccia che io osi per questo biasimar il lavoro di monsignor Borghini, siccome ha fatto un valente [p. viii modifica]scrittore de’ nostri dì2; non essendo credibile che un uom così giudizioso, com’era il Borghini, v’abbia fatte mutazioni di questa sorta senza esserne stato indotto da buone ragioni. E questo è tanto più da presupporsi se si considera che appunto alla detta edizione si sono attenuti nelle ristampe loro ed un Manni, il qual tanto avanti in così fatte cose vedea, e gli altri che queste Novelle ripubblicarono dopo di lui: ad ogni modo egli sarà sempre vero che il testo delle Cento Novelle antiche, qual noi l’abbiamo nelle due vecchie edizioni or mentovate, reca seco un certo carattere di originalità, che cel fa riguardare come il più autentico e genuino. Stando per tanto a questo modo la cosa, quantunque per avventura l’edizion del Borghini e le susseguenti esser possano di utilità maggiore ad un certo genere di cultori della buona favella, [p. ix modifica]niente di meno a’ veri studiosi della medesima dee fortemente rincrescere di non poter consultare ad un bisogno il più legittimo testo di queste Novelle per cagione della gran rarità delle edizioni in cui esso si serba.

Indotto da tal considerazione, io ho deliberato di ripubblicar questo monumento prezioso della eloquenza degli avoli nostri nel modo in cui esso fu pubblicato da prima; stimando che gli amatori della nostra favella dovessero sapermene grado; essendochè d’ora innanzi sarà lor conceduto di ricorrere al più sicuro testo delle Cento Novelle antiche qualunque volta lor ne venga il talento: dovechè, se ancor io mi fossi attenuto alla stampa del 1572, siccome tanti altri hanno fatto, non avrei a questi renduto il servigio di cui più abbisognavano; e, rispetto egli altri, mi avrei presa una cura quasi soverchia dopo le iterate ristampe già fattesi di quella edizione.

[p. x modifica]Io mi sono appigliato a quella delle due vecchie stampe la qual porta la data; e questa ho costantemente seguita fuorchè in pochissimi luoghi in cui manifestamente apparisce che il testo è viziato: nel qual caso tentato ho di restituire ad esso la sua vera lezione con l’aiuto di qualche altra delle più emendate che noi conosciamo. Da me fu trascelta più tosto quella, che l’altra, per tre ragioni. Prima di tutto perchè io sono d’avviso (che che ne dica Apostolo Zeno3) che quella sia l’edizione originale procurata dal Gualteruzzi, e perciò la più autentica4; essendo quel letterato illustre stato solito [p. xi modifica]sempre di far apporre la data alle impressioni de’ libri eseguitesi per le cure di lui, come si vede nelle cose del Bembo pubblicate da esso in Roma e in Venezia: dipoi perchè, attenendomi ad essa, io mi conformava al giudizio degli Accademici della Crusca, i quali hanno adoperata questa, e non l’altra, nella compilazione del loro Vocabolario: e finalmente perchè a me parve che la stessa particolarità del portare la data venisse a conciliare alla medesima maggior fede.

Mia intenzione era non per tanto di valermi eziandio dell’altra sì per collocare nella presente ristampa in piè di pagina tutte le varianti lezioni che state mi fossero somministrate da essa; e sì ancora per correggere col mezzo di quella eziandio gli errori che non fossero stati indicati nell’errata corrige che trovasi nell’edizione del 1525 in fine del libro. Ma non ho potuto mandar ad effetto questo mio divisamento; essendochè, postomi a [p. xii modifica]collazionar diligentemente l’una con l’altra, vi ritrovai tanta uniformità che, qualunque di esse sia la ristampa, si sono per lo più ritenuti anche in quella, non che le lezioni, gli errori dell’altra: la qual cosa s’è fatta parimente in quell’edizione in 4.° senz’anno la qual si suole veder riunita alla Raccolta delle Novelle stampate per opera del Sansovino nel 1571 in Venezia.

M’andò fallito altresì con mio dispiacere un altro disegno. Era già a mia notizia che nella sceltissima libreria del Balì Farsetti esisteva un esemplar delle Cento Novelle antiche, impresse dal Benedetti, con postille MSS. nel margine, il qual, dopo la morte di lui passò con gli altri suoi libri nella biblioteca pubblica di s. Marco. Io sperava di rinvenir in esso dove la correzione di qualche luogo viziato; dove una miglior lezione tratta da qualche buon testo a penna; dove la dichiarazione di qualche antica voce a’ [p. xiii modifica]nostri dì poco intesa, o di qualche modo di dire ito al presente in disuso: ma in vece di ciò io ritrovai qua di rimpetto a una voce, ch’era per entro alla Novella, la stessa voce scritta nel margine; là notatovi nel margine proposta, e più sotto risposta, secondo che dentro del libro proponevasi qualche cosa, alla quale dipoi era data risposta: altrove, di rincontro a una metaforica locuzione usata dall’autore della Novella, si vedea scritto bella metafora: in un altro luogo era stato posto un detto latino, d’ordinario mal applicato a qualche passo del testo; cose tutte da servire piuttosto d’imbratto al libro, che d’utilità e di gradimento al lettore. Marco Mantova Benavides, giureconsulto e professore di diritto nell’Università di Padova, già conosciuto per parecchie opere che s’hanno di lui alla stampa5, le avea scritte per uso suo nel [p. xiv modifica]margine d’un esemplar da lui posseduto delle Cento Novelle antiche; e di là furono poi trascritte da mano ignota in quello del Farsetti, siccome rilevasi da una nota scrittavi in un de’ riguardi del libro. Saranno forse state buone per lui: ma in quanto agli altri, io non vedo a che potessero mai esser giovevoli nella lettura di queste Novelle.

D’ornamento incomparabilmente maggiore a questa ristampa sarebbe stata la giunta di quelle sette Novelle antiche le quali il chiarissimo Poggiali annunciate avea come inedite nel primo tomo della sua Serie de’ testi di lingua, se tali effettivamente esse fossero state. Ma egli avviene anche agli uomini più prestanti [p. xv modifica]di pigliare alcuna volta granchi solenni. S’avvide poscia egli che due di queste sette Novelle erano tra le cento già pubblicate dal Gualteruzzi; e nel fine del tomo secondo esso stesso ne rendè avvertito il lettore. Me ne rimaneva tuttavia la speranza per conto dell’altre cinque: ma se n’è ita anche questa allora quando dal signor Professore del Furia, bibliotecario della Laurenziana ed Arciconsolo dell’Accademia della Crusca, mandatami cortesemente una copia fedelissima delle dette Novelle, tratta dal codice mentovato dal Poggiali, ebbi a chiarirmi che anche di queste le più importanti si trovano per entro alle Cento Novelle della stampa del Benedetti. Non havvi altro d’inedito che un’assai breve Novella, e due altri componimenti corti cortissimi, che non si posson chiamar Novelle, nè tra le Novelle annoverare. Consiste il primo di questi in tre proverbj annestati l’un nell’altro in maniera che vengono a [p. xvi modifica]formare una bella sentenza morale; e il secondo parimente in una riflessione morale, espressa, al parer mio, con qualche vaghezza. Forse il Gualteruzzi avrà ommessa la detta Novella perchè gli sarà paruto che non fosse da farsene molto caso, e i due altri componimenti perchè avrà stimato che non dovessero in un libro di Novelle aver luogo.

Io avea da principio pensato di aggiungere alle Cento Novelle in fine del libro le dette cose: ma perchè troppo scarsa in paragone della derrata avrebbe potuto parere la giunta, mi sono astenuto dal farlo: ed affinchè non ne fossero tuttavia defraudati que’ leggitori i quali giudicano che de’ primi padri della lingua sien da raccogliersi ed aversi in onore anche le menome cose, a contemplazione di essi ho deliberato di collocarle qui. Esse sono le seguenti:

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Novelle e sentenze copiate alla lettera dal testo a penna, numerato 193, delle Cento Novelle antiche, il qual esiste nella Libreria Mediceo-Laurenziana.

I.

Fue uno savio religioso, il quale era grandissimo6 intra li frati predicatori, il quale avea un suo fratello il quale s’attendea di cavalcare in uno oste nel quale s’aspettava ch’al postutto battaglia sarebbe co’ nimici. Andò a questo suo fratello frate per ragionar con lui anzi ch’andasse. Il frate l’ammonío assai, e disseli molte parole, intra le quali, e dopo le quali disse queste parole: tu andrai al nome di Dio. La Battaglia è justa per lo comun tuo: sie prod’uomo, e non dubitare; chè forse sanz’ogni ciò7 ti morresti tu.

II.

Tre cose sono che non si possono mai ammendare nè ricomperare appo l’onore del secolo. Donzella, che [p. xviii modifica]faccia fallo di suo corpo8, giammai per neuna onestà non compera il biasmo. Cavaliere, che faccia viltà, giammai per prodezza che faccia non ricompera il biasmo. Mercatante, che faccia dislealtà, giammai per lealtà che faccia non ricompera il biasmo9.

III.

La verità è sì forte che non si può uccidere. Fedire si può co’ maliziosi inganni della falsità, ma uccidere no. Così potrebbe l’uomo andare contra la ragione, come saltare l’ombra sua medesima10.


Divenuti per tanto inutili quasi del tutto i miei tentativi di dare un maggior lustro a questa edizione, restava che tutte fossero le mie cure rivolte a riprodurne il semplice testo così purgato da ogni menda, che anche senza verun altro corredo, essa commendevole si rendesse ed [p. xix modifica]accetta per se medesima: alla qual cosa non fu certo da me risparmiata veruna fatica. Solo ho stimato bene di farvi qua e là in piè di pagina così alla sfuggita qualche piccola osservazione, la quale comechè, considerata in se stessa, sia di pochissimo o nessun pregio, può tuttavia riuscire non disutile affatto a coloro, cui non è familiar la lettura de’ primi padri di nostra favella.

Diranno per avventura alcuni disprezzatori delle cose degli avoli nostri: a che tanto affannarsi intorno a così fatte insulsaggini? e che hassi a far ora di que’ rancidumi? O voi a cui tanto putisce tutto ciò che non sa di moderno, vi siete voi posti mai a cercar di proposito se tra ’l vietume, che scorgete là dentro, s’asconda nulla che giovar potesse anche a voi? In quanto a me, io trovo nelle scritture de’ nostri antichi una grande semplicità, quella semplicità ch’è la base e ’l fondamento della bellezza; trovo una somma aggiustatezza ne’ lor pensieri, una somma [p. xx modifica]proprietà nelle loro espressioni; trovo una maravigliosa facilità nel modo di rappresentare le cose, e una grazia che propriamente innamora nelle forme del favellare. Essi non si studiano di abbagliarti con lo splendor d’una vana eloquenza; non di sopraffarti con una fastosa ostentazion di sapere; non di tenerti a bada con inutili ciance; non di avvilupparti la mente con artifizj, con arzigogoli, con giravolte: ti conducono sempre per la strada più piana e più corta al termine che si sono prefissi. Tutti questi pregi, tutte queste virtù rinvengonsi forse nelle carte de’ nostri moderni? A me certo non pare, da quelle in fuori di un numero scarso di giudiziosi scrittori, i quali sanno ottimamente guardarsi da’ vizj onde sono d’ordinario macchiate le scritture de’ tempi presenti; de’ quali vizj buon correttivo sarebbe, per chi profittar ne sapesse, il far semplice e schietto di coloro che scrissero in quel secolo avventurato.

Note

  1. Ce ne ha una ristampa in carattere corsivo, parimente senza data, molto rara ancor essa, della quale sarà fatta menzione tra poco.
  2. Vedi Opusc. scientif., Fir. 1808, vol. V, pag. 36.
  3. Annotaz. al Fontanini, t. II, pag. 181, ediz. di Ven. 1753.
  4. La più autentica sarebbe quella che si fece nel Monastero di Ripoli, nell’anno 1482. Che fossero in quell'anno impresse nel detto Monastero le Cento Novelle antiche, comechè se ne sia dubitato da parecchi bibliografi, sembra tuttavia cosa certissima; stantechè ciò apparisce dal registro delle spese di quella stamperia pubblicato dal Fineschi. Ad ogni modo si può sospettare che oggidì non n’esista più verun esemplare; non trovandosene fatta menzione nè pur ne’ cataloghi delle biblioteche più insigni.
  5. Fu anche autore egli medesimo di tre Novelle. Si trovano esse in un rarissimo libretto stampato senza data nel secolo XVI con questo titolo: Novelle tre dell’Ingratitudine, dell’Avarizia e dell’Eloquenza, del qual libro un esemplare, esistente nella Raccolta de’ Novellieri posseduti dal conte Anton Maria Borromeo, fu venduto a Londra sette lire sterline e mezzo. Furono ivi dipoi ristampate nel 1814 in un libro di Novelle scelte rarissime del quale si tirarono soltanto cinquanta copie.
  6. Osserva bel modo di dire: era grandissimo intra, ec. cioè avea grandissima autorità; era in altissima riputazione.
  7. Sanz’ogni ciò. Senza tutto questo; vale a dire: se la battaglia non fosse giusta, e tu non combattessi da uom prode, morresti tu, e prevarrebbe l’inimico. Qui la voce ogni può anche considerarsi come riempitiva. S’usa allo stesso modo altresì con la voce qualunque. Così l’adoperò Matteo Villani (lib. II, cap. 6) quando disse: Contro all’opinione d’ogni qualunque.... parti da Pescia. Bastava dire qualunque: quell’ogni v’è per riempitivo.
  8. È qui da notarsi il modo di dire bellissimo far fallo di suo corpo.
  9. Merita osservazione quel comperare, e ricomperare il biasimo per cancellare la macchia; racquistar la riputazione perduta. Oggi in questo senso non si direbbe; e se si dicesse, significherebbe il contrario.
  10. Saltar l’ombra sua per tentare una cosa impossibile mi par che sia detto con garbo. Tentar l’impossibile soltanto esprime la cosa: saltar l’ombra sua esprime la cosa e la dipinge nel tempo stesso.