Capitolo XIII
La Scotennatrice

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XII XIV
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Capitolo XIII.


La Scotennatrice.


Nube Rossa ed i suoi guerrieri si erano affrettati a lasciare la grande caverna degli Atabask, spingendosi brutalmente innanzi i quattro prigionieri, i quali, d’altronde, non pensavano a ribellarsi, conoscendo troppo la crudeltà degli uomini rossi.

Attraversato l’istmo, la banda si arrestò dinanzi ad un gigantesco zatterone che era stato saldamente legato ad alcuni grossi alberi.

Nube Rossa, sempre sospettoso, osservò attentamente il fiume, poi disse ai suoi uomini:

― Montate. ―

John lo guardò in viso, chiedendogli con voce un po’ beffarda:

― Dove ci conduci?

― Da mia figlia. È Un bel po’ che ti aspetta, o meglio che vi aspetta. Hug! Sarà ben contenta di vedervi. —

Il vecchio e terribile capo dei Corvi accompagnò le ultime parole col sogghigno del giaguaro che sta per precipitarsi sulla preda; poi, facendo un gesto maestoso, aggiunse:

― Vedrete quale trattamento avrete da lei! Sarete i sakems della festa.

― Al palo della tortura, è vero, vecchio brigante? ― gridò Harry scattando.

Hug!... Mio fratello bianco non sa quello che si dice. Avrete invece maiz condito con grasso d’orso fresco, carne di bisonte a volontà, lamponi selvatici ed anche del whiskey.

— Canaglia! Ci burli anche?

― No; e poi basta. Io non amo le chiacchiere. Sono vecchio. Montate! —

I quattro prigionieri furono sollevati quasi di peso e scaraventati brutalmente sullo zatterone.

[p. 138 modifica]Dodici guerrieri armati di tomahawks, li circondarono, mentre gli altri afferravano delle lunghe pertiche.

La corrente era impetuosissima, essendo la rapida poco lontana, e continuava a trascinare grosse lastre di ghiaccio, le quali si spaccavano con mille scricchiolii contro la zattera. Nondimeno gl’indiani, puntando fortemente la fendevano senza correre il pericolo di venire attratti dall’abisso, rumoreggiante a così breve distanza. Vivendo sui grandi corsi d’acqua dell’America centrale degli Stati del Nord erano non solamente arditi guerrieri, ma anche abilissimi barcaiuoli.

Lo zatterone, dopo aver corso parecchie volte il pericolo di essere attratto dalla furia della corrente, toccò la riva opposta della fiumana.

Cinquanta e più cavalli erano là, guardati da una diecina di pellirosse, sempre pronti a ripartire.

Nube Rossa fece sbarcare i quattro prigionieri e li fece legare sulle groppe dei quattro più robusti cavalli, colle gambe volte verso la coda e la testa appoggiata al collo.

Quegl’indiani avevano fatto un uso così abbondante di lazos, che i disgraziati prigionieri si trovavano quasi nella impossibilità di fare il più piccolo movimento.

— Ehi, vecchio brigante! — non potè trattenersi dal gridare Harry ― ci tratti come salcicciotti di bisonte?

— Taci, uomo bianco, — rispose ruvidamente il sakem dei Corvi. — Il padrone ora sono io.

— Crepa, cane!

— Manitou mi ha promesso di farmi veder morire mia figlia, e quella è una giaguara che non si prenderà facilmente.

— Tu lo credi? — urlò John.

— Certo.

— E gli americani che ti dànno ora la caccia li hai dimenticati? —

Il vecchio Corvo ebbe un sussulto, quasi uno spasimo, poi riprendendo il suo sangue freddo rispose:

Hug! Sono lontani i larghi coltelli dell’ovest. I lupi bianchi chiudano la bocca e non cerchino di ribellarsi, altrimenti noi adopreremo prontamente i tomahawks.

— Crepa, vecchia canaglia! — urlò Harry furibondo.

— Più tardi, quando il buon Manitou lo vorrà — rispose il sakem con un sogghigno feroce.

Mandò un fischio stridente e la caballada risalì al piccolo galoppo la riva coperta di neve e di bassi cespugli.

I quattro prigionieri, legati come erano, imprecavano, poichè le scosse [p. 139 modifica]dei mustani tormentavano loro atrocemente le membra, strette vigorosamente fra i duri lazos.

La salita durò pochi minuti, fortunatamente, e la caballada prese un galoppo disteso, quasi piano, sull’alta prateria, smorzando, o almeno attenuando le sofferenze dei prigionieri.

Quella corsa durò una ventina di minuti, poi si arrestò bruscamente fra un urlìo feroce di cani.

La caballada era giunta dinanzi ad un vasto accampamento, formato da più di duecento wigwams.

Tutte le grandi tende coniche fumavano, quantunque l’alba non fosse ancora sorta, e numerosi guerrieri, avvolti in ampie pelli di bisonte dipinte in rosso od in azzurro, sedevano attorno a dei giganteschi fuochi, tenendo i fucili fra le gambe.

Nessuna dimostrazione ostile accolse la comparsa dei prigionieri, i quali, staccati finalmente dai cavalli, poterono attraversare il campo ingombro di cavalli e di cariaggi.

Nube Rossa li condusse dinanzi ad una tenda tutta rattoppata, che pareva si reggesse per un puro miracolo d’equilibrio, e disse ai visi pallidi:

— Entrate.

— Bella casa che ci offri, vecchia pelle! — disse Harry. — Non ci cadrà addosso? Avremo almeno un po’ di fuoco?

— Noi non siamo crudeli coi prigionieri — rispose Nube Rossa col suo solito sorriso sardonico.

— Ma li scotennate! — ribattè John.

— Per una vecchia abitudine.

— Vecchio caimano! — gridò Harry. — Sei più feroce di tua figlia e di tua moglie. —

Nube Rossa si piantò dinanzi allo scorridore con aria minacciosa, e rispose:

— Sono un Corvo. —

Poi ad un suo cenno i suoi guerrieri spinsero nella tenda i quattro visi pallidi, o meglio ve li scaraventarono.

— Manigoldi! — gridò Harry, il quale era andato a rotolare sopra un ammasso di vecchie pelli.

Un fuoco ardeva dentro la tenda, sotto il buco aperto in alto, alla congiunzione delle pertiche, ma dava più fumo che luce, ed un puzzo orrendo, come di cose putride, rendeva la respirazione quasi impossibile.

— Ci hanno cacciati in una cloaca? — disse il signor Devandel, il quale si sentiva soffocare. — Che sia questo il principio della nostra tortura?

[p. 140 modifica]— Le loro tende non sono meno profumate di questa, capitano, — rispose John. — La pulizia è ignota agl’indiani.

— Questo lo so, ma qui si soffoca. Se si potesse alzare un lembo della tenda per lasciare almeno sfogare il fumo....

— Correreste il pericolo di farvi troncare la mano da un colpo di scure, signor Devandel! Siamo circondati e ben sorvegliati.

Abbiate un po’ di pazienza; anche i nostri polmoni finiranno coll’abituarsi.

— Ci vorrà del tempo.

— Meno di quello che credete.

— E poi che cosa faranno di noi?

— Dovreste immaginarvelo: ma io conto sempre su Sandy-Hook.

— Speri che giunga in tempo a strapparci dalle mani di Minehaha?

— Sì, signor Devandel!

— Uhm!

— Eppure io son sicuro di non lasciare a Nube Rossa la mia parrucca.

— La lascerai a sua figlia.

— Nemmeno.

— Senti dunque la vicinanza degli americani? Avresti un naso così straordinario?

— Chi lo sa? — rispose l’indian-agent.

In quel momento entrarono due pelli-rosse portando due canestri pieni di viveri, in mezzo ai quali troneggiavano due bottiglie di quell’infame wiskey di prateria, fabbricato quasi tutto a base di vetriolo per rovinare più rapidamente la razza rossa.

— Manda Minehaha — disse uno dei due, mentre l’altro con pochi colpi di coltello tagliava i lazos che legavano le braccia ai prigionieri.

— Ringraziala da parte nostra — disse John ironicamente. — Ma avvertila che noi non berremo il liquore che intende offrirci e nemmeno assaggeremo i suoi viveri. —

Quantunque avesse le gambe ancora legate, con uno sforzo supremo si era alzato, e afferrati i due canestri li aveva scaraventati addosso ai portatori.

— Dite alla vostra sakem, — gridò mentre i due indiani, inondati di wiskey e coperti di maiz condito con grasso d’orso e di lamponi selvatici, lo guardavano stupiti — che gli uomini bianchi rifiutano e sdegnano la sua cena.

— Benissimo, camerata, ― disse Harry. ― Ecco una fiera risposta, degna di voi, data alla feroce figlia di quel vecchio alligatore che si chiama Nube Rossa. —

[p. 141 modifica]I due indiani stettero un momento dubbiosi sul da farsi, palpeggiando parecchie volte il loro coltello da scotennare, che pendeva dalla cintura, poi raccolsero i canestri e si decisero ad andarsene senza protestare.

Non erano trascorsi cinque minuti, che un altro indiano, armato d’un fucile e d’una scure da guerra e con due penne di falco nero infisse nella folta capigliatura, entrò nella tenda e si mise a guardare minacciosamente i quattro prigionieri.

— Ehi, pappagallo, — disse Harry — puoi ripassare domani. Ora abbiamo sonno, e non siamo delle belve feroci da esser guardate. Che cosa vuoi tu?

— Voglio l’uomo che ha rifiutato la cena della sakem — rispose il sottocapo, caricando il rifle.

John era ancora in piedi.

— Sono stato io! — rispose. — Taglia il lazo che m’impedisce di camminare, ed io ti seguirò. —

L’indiano estrasse il suo coltello da scotennare ed in pochi colpi fece cadere i legami.

— Che mio fratello ora mi segua e non cerchi di tentare la fuga, poichè siamo in cinquecento qui.

— Non vede mio fratellino rosso che non possiedo nessuna arma? — rispose John. — Che cosa potrei fare?

— I visi pallidi sono audaci.

— Sì, lo affermate ora dopo una lunga serie di durissime lezioni.

Hug! — si limitò a rispondere quel sottocapo, scotendo la testa.

Intanto si era fatto da parte per lasciare il passo al vecchio scorridore.

— John, — disse il signor Devandel con voce che tradiva una certa commozione — ti rivedremo?

— Questi indiani non hanno mai fretta di massacrare i loro prigionieri — rispose l’indian-agent. — Ci faranno la festa a tutti insieme, se ce la faranno.

Se aspettano, tanto meglio!

Camerati, non temete per me. —

Uscì dalla tenda e si trovò subito circondato da altri quattro guerrieri che tenevano un dito sul grilletto dei loro winchesters, come se dovessero fare subito una scarica.

— Quante precauzioni! — disse John sforzandosi di sorridere. — Si ha molta paura di me, a quanto pare! —

Il drappello si mise subito in marcia, attraversò il vastissimo campo e si fermò dinanzi ad un wigwam più alto degli altri, formato con pelli [p. 142 modifica]di bisonte dipinte in rosso e sulla cui cima sventolava il totem della tribù, una piccola bandiera di pelle di daino, che portava nel mezzo, pure dipinto in rosso, un coltello da scotennare.

Era la tenda di Minehaha, figlia di Nube Rossa, la famosa Scotennatrice che portava, sul suo scudo di guerra, la capigliatura che aveva strappata al disgraziato indian-agent fra le montagne del Laramie durante il macello della colonna di Custer.

— Entra, — disse il sottocapo con voce grossa.

John lo guardò nel bianco degli occhi e poi gli disse:

— Io e la tua grande sakem ci conosciamo da molti anni. L’ho portata fra le mie braccia fino al Grande Lago Salato, l’ho salvata dai lupi che volevano divorarla, ed alle mie attenzioni ha corrisposto scotennandomi. Non ho paura di affrontarla. Non sarà nè il vostro Manitou, nè il diavolo dalle cento corna. Lascia andare il tuo tomahawk, che già non mi fa paura. Ne avrai bisogno domani contro i larghi coltelli dell’ovest, e cerca di adoperarlo bene.

― Che cosa dice mio fratello il viso pallido? — chiese l’indiano, un po’ impressionato da quella minaccia misteriosa.

— Io non dico nulla — rispose John. — Chi vivrà, vedrà; ma tu domani, ne son certo, caccerai i bisonti fra le praterie celesti del buon Manitou.

— Continua!

— Ho finito. Il resto lo dirò a Minehaha, se vorrà ascoltarmi.

Non sarà sempre la vostra ascia di guerra che trionferà contro i visi pallidi. Lo vedrete.

— Aspetta.

— Che cosa? —

Il sottocapo invece di rispondere entrò impetuosamente nella tenda, mentre i quattro guerrieri si stringevano intorno all’indian-agent, immobilizzandolo completamente.

Pochi minuti dopo tornava dicendo:

— Entra: la sakem ti aspetta. —

John si cacciò l’ampio sombrero messicano fino agli orecchi, per meglio nascondere la sua parrucca formata coi capelli della madre di Minehaha, alzò, risolutamente un lembo della tenda e si avanzò con aria spavalda, pronto a far fronte alla tempesta che non doveva mancare.

Un gran fuoco ardeva in mezzo alla tenda, sotto lo sfogo aperto in alto, lanciando luci sanguigne e giallastre.

Del fumo circolava là dentro, sfuggendo lentamente attraverso la sommità del wigwam.

[p. 143 modifica]Un’indiana ancora giovine, poichè non poteva avere più di trent’anni dai lineamenti un po’ duri quantunque abbastanza piacevoli, appena leggermente abbronzata, con due lunghissime trecce che le giungevano fino alla cintura, stava seduta dinanzi al fuoco, sul cranio d’un bisonte, sulle cui corna appoggiava le braccia.

Come sua madre, la grande e terribile Yalla, era tutta coperta da uno di quei magnifici mantelloni bianchi, filati con lana di montoni selvaggi di montagna, e che richiedono non meno di due anni di lavoro.

Appena scòrse John, il suo implacabile nemico, che da molti anni non rivedeva più, i suoi occhi foschi si dilatarono, sprigionando un lampo sinistro.

Chi invece non si mosse affatto e rimase perfettamente impassibile, fu il vecchio Nube Rossa, il quale stava sdraiato in mezzo ad un cumulo di pelli, fumando l’eterno calumet.

— Buon giorno a mio fratello bianco, — disse Minehaha, serrandosi indosso, con una mossa nervosa, il mantellone. — Non sei andato ancora a cacciare i bisonti nelle praterie dei visi pallidi? Per dire il vero non credevo di vederti più, e mi ero rassegnata a rinunciare alla riconquista della capigliatura di mia madre, di Yalla, sai, quella che scotennasti sulle rive del torrente delle Sabbie. —

La sua voce, dapprima leggermente ironica, a poco a poco era divenuta stridente, selvaggia, feroce.

Nube Rossa continuava tranquillamente a fumare come se la cosa non lo riguardasse affatto.

— Continua — disse John alla sakem.

Minehaha si alzò di colpo, lasciando cadere il mantello e mostrandosi nel suo costume indiano, più maschile che femminile eppur sempre pittoresco; colla sua giubba ricamata di pelle di daino appena conciato; l’alta cintura alla messicana con lunghe frange, entro le cui pieghe stava infisso il terribile coltello da scotennare, quello che tante capigliature d’uomini bianchi aveva strappate in dodici anni; i suoi calzoneros di velluto azzurro aperti in fondo e adorni di bottoni d’oro e di lunghi fiocchi di capelli bianchi e neri.

Incrociò le braccia con un gesto tragico; poi, fissandolo intensamente co’ suoi occhi brucianti, gli disse:

— Mio fratello bianco, il famoso indian-agent, credeva di non rivedermi più, è vero?

— Ti sei ingannata, perchè io correvo dietro alla mia capigliatura; e sono molti anni che la cerco, perchè so che tu la porti appesa al tuo scudo di guerra.

[p. 144 modifica]— E la volevi? — chiese la sakem con voce stridula.

— Certo, — ripose John con voce invece affatto tranquilla.

— Voi, visi pallidi, potete entrare nelle vostre praterie celesti anche senza capigliatura.

— Chi te lo ha detto?

— Un uomo che un giorno comparve fra la nostra tribù e che cercava d’insegnare la religione dei visi pallidi.

— E che ne facesti di quell’uomo?

— Mi aveva annoiata ed un giorno lo scotennai, — rispose freddamente Minehaha.

— Sempre giaguara.

— Sono figlia di mia madre, della grande Yalla! —

Nube Rossa per la prima volta si scosse, e dopo di aver lanciato in aria un nuvolone di fumo, disse con voce roca:

— Bene, piccina. —

L’indian-agent gli gettò uno sguardo pieno d’odio e di disprezzo; ma non fece proprio nessun effetto sulla vecchia pelle del sakem dei Corvi.

— Se ti piace, continua — disse John.

Minehaha lo guardò freddamente; poi, raccolto il mantellone bianco, chiese:

— Non rassomiglio a mia madre?

— Quando io ti portavo in braccio sul mio mustano verso il Lago Salato, non eri che un’insolente monella, e tale ti sei conservata. —

Nube Rossa alzò la testa e brontolò:

— Ecco un uomo! Sarebbe un male a ucciderlo. Ma è mia figlia che comanda oggi.

I Corvi sono scomparsi. —

Minehaha si era voltata verso suo padre, come se un crotalo l’avesse morsicata, ed un urlo soffocato le sfuggì dalle labbra.

— Lasciare quest’uomo ancora in vita? — gridò con foga selvaggia. — Ah, no!

I Corvi sono scomparsi, ma sono rimasti ancora dei Sioux per compiere delle vendette di sangue.

Padre, quest’uomo scotennò tua moglie, e tua moglie era mia madre.

— Lo so, — grugnì Nube Rossa.

— Le stagioni delle foglie pendenti sono passate da molti anni; eppure tutte le notti io vedo galoppare fra le alte erbe della bassa prateria il bianco cavallone di mia madre. Ella cavalca, la grande sakem che tutti i Sioux ed anche i tuoi Corvi ammiravano per il suo coraggio che ben pochi guerrieri possedendo. Io la vedo sempre passare e [p. 147 modifica]ripassare coi suoi grandi occhi ardenti, il suo mantello svolazzante sopra la groppa del corsiero mai esausto, con un tomahawk in mano che agita minacciosamente.

La sua voce che tuona come quella d’un tornado, mi grida continuamente:

«Minehaha, voglio la mia capigliatura per entrare nelle praterie celesti. Il buon Manitou così non mi vuole».

Padre, glie l’hai data tu? —

Nube Rossa si volse sull’altro fianco e fumò rabbiosamente.

Minehaha puntò un dito contro l’indian-agent e disse:

— Ecco l’uomo che l’ha scotennata, ed ecco quest’uomo nelle nostre mani.

Viso pallido, quando tu hai sparato contro mia madre, sulle rive del torrente delle Sabbie, in quella fatale giornata che doveva costare a noi così gravi perdite, perchè molti sakems ci furono trucidati, non ti sentisti tremare la mano? —

John rimase impassibile.

— Quando la fredda lama del tuo coltello passò sotto i lunghi capelli di mia madre strappandoli insanguinati, non tremò la tua anima?

— No — rispose John con accento glaciale. — E sai perchè, Minehaha? Perchè tua madre aveva scotennato il mio colonnello.

— Che aveva ucciso l’Uccello della notte, figlio di mia madre e dell’uomo bianco! — urlò Minehaha.

Nube Rossa lanciò via il calumet che stava fumando e grugnì come un orso grigio.

Certo, quel ricordo doveva addolorarlo non poco.

Minehaha si era lasciata cadere quasi affranta, sul cranio di bisonte, nascondendosi il viso con un lembo del suo mantellone.