Le Ricordanze (Rapisardi 1894)/Parte seconda/A Giselda
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A GISELDA
Col raggio dei veglianti astri, col raggio
Della candida luna, io ti saluto,
Dolce sospiro mio! Veglian le stelle
Come l’anima mia; scema è la luna,
Come la fronte della mia speranza.
Pur benedetto il dì che dentro al core
Palpitommi il tuo sguardo, e benedetta
La furtiva parola e il bacio primo,
Che di perpetuo amor l’alme ne avvinse,
E benedetti ad uno ad un gli affanni,
Ch’io per te soffro e soffrirò! Tal cosa,
Cara, tal cosa è l’amor mio, che nullo
O sgomento o pietà dammi di questa
Misera vita, che a tant’ira è segno;
Anzi maggior di tutte ire mi rende
E miglior di me stesso e più superbo.
Ma qualor da lontan miro la stanza,
Ove a me nota ed al dolor tu vivi,
E rovesciar sul tuo capo infelice
Sento il fiel di tant’alme e tanta parte
Delle tempeste mie, con fiero istinto
Guardo al viver mio vano, e spegner tutto
Come vil face l’esser mio vorrei.
Odi, Giselda, e non ti faccia inganno
L’amor tuo santo, e la pietà c’hai molta
De’ miei giorni infelici! Una secreta
Tenebra di dolor gravita e pende
Sul capo mio: qual essa sia, qual fonte
Abbia il mio pianto e quali abissi il core,
Nè il so, nè il cerco: una paura io sento
Fredda, crudel ch’esser potria rimorso,
Se delitti avess’io. Morta è la fede,
Morta è la gioja in me: sorride e spera
Altri ove io piango; un’incessante, occulta
Smania mi caccia; dove i passi io volga
Non trovo, e ciò che non è tedio o sdegno,
Dentro all’anima mia diventa affanno.
Per non segnato ciel, per mondi ignoti,
Straniero al mondo, erra il mio spirto in cerca
Di sognati fantasmi; e aspetto, e impreco,
Ed or me stesso, or pazzi gli altri estimo.
Solo su l’orlo a questo vuoto immenso,
Che universo si noma, a cui, se dànno
Luce tant’astri è per mirar nostr’ombra,
Muto, tremante e derelitto io pendo,
O ch’io deggia anzi tempo entro gli abissi
Gittar questo d’affanni e di memorie
Penosissimo incarco, o ver dal tempo
Trascinar là mi lasci ove, se cosa
Restai di noi, rider di noi potremo.
Sorger vedo a me innanzi un’incompresa
Larva di Dio, che di me stesso è l’ombra;
E fra un mar d’infecondi atomi e un suono,
Che dir non so se sia pianto o sorriso,
Come fra cielo e mar veggio una candida
Forma nuotar, che pensierosi e mesti
Gira gli sguardi, e un’armonia diffonde
Che al suon dell’aure e al tuo parlar somiglia.
Che vuoi tu, che vuoi tu, candido sogno
Del viver mio, speranza ultima e bella
Dei giorni miei? Qual porto mai, qual riva,
Qual riposo avrem noi? Zolle pietose
Di quest’isola mia, lidi lontani.
Vergini selve, intatti boschi, or date,
Date ghirlande a me! L’amor che sorge
Fra le tenebre mie, l’amor che solo
Splende dentro al cor mio, vorría d’un fiato
Fare april su la terra, eterno aprile
Sugli abissi del mar; d’albe e di fiori
Tesser intorno a lei, tessere un velo,
Che ravvolga e profumi il paradiso
Delle nostre speranze; un vel che tutta
Chiuda la vita in un sospir, la terra
In un sol guardo, in un momento solo
L’eternità: tessere un velo, un mondo
Popolato di sogni, ove sian l’alme
Sensibil cosa e lingua unica i baci
E Dio la colpa e voluttà il morire!
Ma qual astro e qual fior ride al deserto
Tramite mio? Come vestir di rose
La tua vita io potrò, dolce ed amaro
Strazio e conforto mio? L’anima, il cielo
(Se tal fede ebbi mai), la gloria, il regno
De la morte e del nulla, unico asilo
Ove riposo a tanti mali io spero,
Tutto darei per te! Se cosa vile
Capir l’alma potesse, io fino all’onta,
Fino al delitto scenderei, pur ch’alto
Sopra gli affanni altrui segga il tuo core,
E il tuo cor presso al mio! Crudel talvolta
L’amor mi fa: se al voler mio conforme
Fosse il poter, questo vedresti a un punto
Civile ordin distrutto, e l’uomo ignudo
Errar nei boschi a disputar la ghianda
Ai più forti di sè. Lacci e catene
Per fiero istinto di vendetta e d’ira
Contro noi stessi ci tessiam; di vane
Larve e d’ombre mendaci e di paure
Ingombriam l’alme nostre; e qual più geme
E men leva la fronte al rio flagello
Quel virtuoso è più! Vòto fantasma,
Virtù, vana parola, ove altro serto
Che di spine non hai, s’altra promessa
Dar non sai che del ciel, su questa terra
Che l’ossa nostre, e l’alme forse inghiotte,
Nel nome dell’amor ti maledico!
Perdona, anima cara: empio e crudele
Suona il mio dir; ma delle mie sventure
Vil lamento io non movo. Ad uno ad uno
Vidi cader dalla mia fronte i fiori
Delle speranze mie; spento il sorriso
Della rosea salute; e magra e lenta
Co’ suoi freddi bisogni al fianco mio
L’abbominosa povertà s’asside.
Divorai muto il pianto, e muto io tolsi
Le mie sciagure e le torrò. Di strane
Non comprese speranze il canto aspersi,
E plauso ebbi di vate, e alcun non seppe,
Che chiusa avea la speme e il doman morto
Chi altrui la speme e l’avvenir schiudea.
Tal io t’apparvi in pria: l’amor mi rese
Debol sì, ma non tal ch’altri sapesse
Fuor di te il dolor mio: d’invidia degno
Esser io vuo’, non di pietà. S’io prego,
S’io mi querelo e maledico e piango,
Egli è solo per te! Su fragil barca
Senza remo nè vela, all’onde in preda,
Correr meco vuoi tu la fredda, oscura
Solitudin de’ miei giorni infelici?
Insanguinar le delicate piante
Sovra i triboli miei? Sparger commisto
Al mio pianto il tuo pianto, e temprar l’ira,
Che mi bolle nel cor negra e funesta,
Col dir pietoso, ed affrenar co’ baci
L’empia bestemmia che dal sen m’irrompe
Su questa terra senza april, su questi
Uomini senza cor, ciel senza Dio?
Deh, ascolta anima cara; e se tant’alto
Amor ti parla, che dolente e solo
L’alma tua rara non sostien ch’io viva,
Vieni, ah vieni al mio cor, tergi il mio pianto,
Dolcezza unica mia! Le braccia io tendo
A te, come il nocchier le tende al porto;
Schiudo l’anima a te, come alla pioggia
S’apre la terra, il fiore a la rugiada,
La notte agli astri e il duro verno al sole.
Vieni, ah vieni al mio cor, tergi il mio pianto
Speranza unica mia. Finchè a me splenda
Raggio di Sol negli occhi, entro al mio petto
Splenderan gli occhi tuoi; stanche d’amplessi
Le mie braccia cadran, quando all’amplesso
S’apriran de la morte, e freddi a un tempo
Taceran le mie labbra e i baci miei.
Vieni, ah vieni al mio cor, tergi il mio pianto,
Compagna unica mia! Da questi lidi
Ricchi di fior’, ma di bei sensi avari,
Moverem lungi un dì, moverem soli
Coi nostri affanni e il nostro amor! Vedrai
Quanto dell’ire altrui, del soffrir mio
Dispregio io serbi; e che fra tanti affanni
Sol non avrò questa virtù perduta
Di portar l’amor mio nell’urna invitto.