Le Novelle Indiane di Visnusarma/Notizia sulle Novelle di Visnusarma
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Traduzione dal sanscrito di Italo Pizzi (1896)
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NOTIZIA
SULLE NOVELLE DI VISNUSARMA
Ricchissima di favole e di novelle è la letteratura dell’India antica, e ne restano ampie e ben ordinate raccolte, sebbene non ai Bramini veramente, ma ai Buddhisti sembra doversene attribuire in origine o l’uso o l’invenzione. È certo, del resto, che i Buddhisti si valevano acconciamente degli apologhi degli animali e delle novelle per propagar le loro dottrine. Quand’essi, a un certo tempo, ebbero il sopravvento nell’India, ebbero anche una letteratura copiosa, tra le opere della quale vuolsi pure annoverare una celebre raccolta di favole e di novelle, intesa a porgere insegnamenti morali ed educativi, nota, allora, col nome di Specchio dei principi e divisa in tredici capitoli. Ma poi, quando il Bramanesimo, cacciati i Buddhisti, ebbe alla sua volta il sopravvento, i Bramini fecero loro proprio il libro delle novelle, l'acconciarono con molt’arte e con molta perizia alle opinioni loro, e, divisolo in cinque libri, gli posero il titolo di Panciatantra che in sanscrito significa il Quintuplo.
L’occasione per comporre il libro, secondo il libro stesso, vera o fittizia che sia, è ricordata nell’introduzione di esso, laddove si racconta di un re di Mihilaropia, di nome Amarasacti, che, avendo tre figli discoli e scapestrati, sgomento non poco della loro mala condotta, interrogò un bel giorno i consiglieri suoi intorno al modo di rimediare allo scandalo. Diversi espedienti propongono i diversi consiglieri, ma tutti vengono disapprovati, finchè, fatto venire nel cospetto reale il savio Visnusarma, egli domandò licenza al re di prendersi con sè i tre giovinetti, promettendo di ricondurli in sei mesi a miglior costume. L’introduzione, seguitando, dice: «Avendo il re udito cotesto, lieto nell’animo, affidati con reverenza i figliuoli a Visnusarma, venne in gioia grande. E Visnusarma, toltisi i fanciulli e ritrattosi alla sua dimora, compose a tal fine i cinque libri, ..... e i regi fanciulli vi furono istruiti. Perchè essi, avendoli studiati, divennero, in sei mesi, conformi al desiderio del re, quali erano stati promessi. D’allora in poi questa dottrina della vita, distribuita in cinque parti, fu ordinata sulla terra per l’istruzione dei fanciulli». Così l’introduzione; e i cinque libri, dei quali veramente resta costituito il libro, trattano rispettivamente i seguenti cinque punti di morale pratica: del modo di rompere l’amicizia; del modo di contrarre amicizia; della inimicizia; della perdita di ciò che è stato acquistato; delle cose fatte inconsideratamente. In generale, una novella o una favola occupa rispettivamente ciascun libro, intesa appunto a dichiarare uno dei detti punti di morale, ma, lungo la narrazione, è data occasione frequente d’interromperla per illustrare con racconti e novelle e apologhi secondari qualche sentenza o qualche proverbio che è caduto in acconcio di riferire; onde avviene che i racconti, in tutto, sono intorno a settantacinque, narrati con maggiore o minore ampiezza secondo la loro importanza, onde la lettura così variata ne riesce oltremodo piacevole e gradita.
Tanto più poi riesce piacevole e gradita quanto più vi si vede rappresentata, tale quale essa è, la commedia umana, per dirla con frase recente. Perchè vi si dipingono al vivo i rei costumi delle femmine, corrotte e guaste quando non anche sono andate a marito, scellerate e perfide quando sono maritate; le arti ree e subdole dei consiglieri e dei ministri reali; i costumi rilassati dei principi neghittosi e indolenti; le ipocrisie dei Bramini ghiottoni e sordidi, e, con ciò, furberie di ladri, arti procaci di sgualdrine, sfrontatezze di giovani discoli, mariuolerie di mercanti, falsa religione di penitenti, goffaggini di dottori in discipline sacre. Ora, è ben facile vedere quanto profonda sia la differenza tra questo libro singolare e curioso e i due maggiori poemi dell’India, il Ramayana e il Mahabharata. In quelli, tutta la vita di quaggiù è soavemente dipinta come una vita ideale, mentre in queste novelle di Visnusarma essa è apertamente ritratta nella sua nuda verità. Là si narra di Bramini casti e saggi, di re longanimi, buoni, magnanimi e generosi, di eroi prodi fra le armi e campioni imperterriti del bene, di figli savi e obbedienti, di vergini e di spose caste e pudiche; qui tutto l’opposto di ciò, e la rappresentazione n’è fatta sovente con cinismo e sfrontatezza spavalda, pur con l’intendimento di ammaestrare.
La narrazione si fa in prosa; essa è tuttavia interrotta sovente da molti passi poetici di natura gnomica e sentenziosa che vengono come a dichiarar bellamente e ad illustrare ciò che si racconta o si descrive o si espone. In generale, sono proverbi e sentenze e detti arguti tratti dalla sapienza popolare, sempre molto acuta; ma molte volte, anche, sono passi tolti alle raccolte dei poeti gnomici, al Codice di Manu, qualche volta anche ai poemi, ai poeti erotici, ovvero alle antiche tradizioni eroiche e mitologiche. Quei versi vengono acconciamente ad interrompere la monotonia della prosa, e, con ciò, quello che nella prosa è detto oscuramente qualche volta, riceve luce improvvisa e inattesa da questi versi che fanno conoscere come il senso intimo o il significato recondito di ciò che si narra o si descrive. Del resto, sebbene dicasi a principio che il libro fu composto per l’educazione di giovani principi, non si creda già che vi s’insegni una morale molto alta, molto nobile e molto disinteressata. Vi s’insegna piuttosto la morale del tornaconto, purchè tutto ciò che si fa o dice, si faccia e dica pulitamente, con bell’arte, con bella maniera, con furberia e avvedutezza. Vi si parla, è vero, di dovere, ma sarebbe ridicolo il cercarvi l’idea alta che del dovere aveva Cicerone quando scriveva il libro degli Uffici; vi si parla anche di tante virtù buone e umane, ma sarebbe opera inutile il cercarvi l’idea della virtù, spinta fino al sacrifizio di sè stesso, secondo la dottrina evangelica, anche se alcuna favola o novella può fare eccezione, come quella del colombo nel libro terzo, non dubbia aggiunta posteriore. La morale di Visnusarma si riduce al riuscir bene e presto nel proprio intento, ora con la malizia, ora con la furberia, ora con tutte le arti possibili, anche le non belle. Trattasi insomma di vivere quaggiù il meglio che si possa, di starvi bene, di goder la vita e soddisfarne i desideri; morale pratica e nulla più. Con questo, non si può negare che il libro è scritto con tanto buon senso, con tanta finezza e acutezza di osservazione, con tanta conoscenza della vita e del cuore umano, da non trovarsene forse esempio simile in alcun’altra letteratura. È una viva ed efficace pittura dei costumi di quei tempi e di quei luoghi tanto lontani dai nostri; e però, in questo rispetto, è anche un solenne monumento storico. Autore n’è detto essere il savio Visnusarma (propriamente Visnusarman); ma di lui, sia personaggio vero, sia leggendario, non sappiamo nulla.
Curiosissima poi e importante a conoscersi è la storia, che diremo avventurosa, di questo libro singolare; perchè, venuto a noi nel Medio Evo per via lunga di traduzioni e trasformazioni orientali e occidentali, porse materia copiosa ai nostri scrittori di novelle, i quali sovente ne rifecero alcune senza conoscerne la lontana e prima origine. Ma tutta questa storia di traduzioni e di rifacimenti si può leggere esposta con molta dottrina e con molta erudizione in un’opera di Teodoro Benfey, opera capitale per questi studi1. Quanto a noi, ci appagheremo di ricordar soltanto le principali versioni del libro incominciando dalle orientali, seguendo per tal modo come il lungo viaggio da esso fatto per giungere fino a noi.
La prima traduzione fu quella fatta in pehlevico da Buzurcimihr. Buzurcimihr era un gran savio che viveva in corte del re di Persia, Chosroe il grande, nel sesto secolo dell’Era volgare. Di questo gran principe e dell’opera sua dotta e benefattrice molte cose si dovrebbero dire; ci basti ora il notare che, tra le altre opere belle onde promosse la cultura e la civiltà in Persia, fu anche quella del far tradurre nella lingua di Persia d’allora che era il pehlevico, i libri più reputati delle nazioni civili, e, tra le altre, le opere di Platone e di Aristotele e questo libro delle novelle indiane fatto venire in Persia con gran studio e fatica. La versione pehlevica ordinata dal gran re è andata perduta; ma su di essa, nell’ottavo secolo, un persiano di recente convertito alla religione di Maometto, cioè Abdallah Ibn ul-Muqaffa, adoperando la lingua dei conquistatori, poichè la Persia era venuta in mano degli Arabi, ne fece in arabo una sua celebre traduzione nota sotto il titolo di Libro di Calila e Dimna. Sono questi i nomi di due sciacalli che hanno gran parte nel primo libro delle novelle, Carataca e Damanaca in sanscrito, passati poi in pehlevico nella forma di Calilac e Damnac. Una versione siriaca del libro ci resta ancora, attribuita a Bud Periodeuta, del sesto secolo, e ce n’è una greca di Simone Seth antiocheno, dell’undecimo. Un rabbino di nome Joel, di cui nulla sappiamo fuor che il nome, tradusse in ebraico il Calila e Dimna, e dall’ebraico lo tradusse in latino, nel tredicesimo secolo, un ebreo convertito, Giovanni da Capua. Venuto così in Occidente, con mutato nome e con origine ignota, il libro fu presto e tradotto e rifatto, sotto titoli diversi, nelle nostre lingue, e però ne abbiamo versioni francesi, provenzali, spagnuole, italiane, inglesi, tedesche e fiamminghe. Anche l’opera del nostro Firenzuola: «La prima Veste dei discorsi degli animali», e l’altra del Doni: «La Filosofia morale», e l’altra ancora di anonimo: «Del governo dei regni sotto morali esempii di animali ragionanti fra loro», pubblicata a Ferrara nel 1585 dal Mammarelli, sono tardi e lontani rifacimenti dell’antico libro indiano. Del resto, il Boccaccio, il Poggio, il Bandino, il Bandello, il La Fontaine, hanno rifatto a brani senza saperlo, come dice l’Amari2, il libro di Calila e Dimna. Anche il divino Ariosto, quando componeva la lepida novella di Giocondo e di Astolfo, non sapeva che il soggetto gli veniva tanto di lontano. Quella novella infatti, che fu una delle più diffuse3, è la quinta del libro quarto nell’originale sanscrito.
L’originale sanscrito, invece, non fu noto in Europa che assai tardi, e soltanto in questo nostro secolo allorquando s’incominciò, da Tedeschi e da Inglesi in particolare, a studiare la letteratura sanscrita. Le novelle di Visnusarma fecero allora conoscere la vera benchè remota origine di tante novelle credute nostre e molte opinioni furon corrette, come quella secondo cui l’ignoto autore arabo delle Mille e una notte avrebbe giù tolto all’Ariosto il soggetto della novella di Giocondo e di Astolfo4. Sono, invece, due novelle che provengono da quella comune origine che fino ai nostri giorni, si può dire, era stata ignorata. Intanto, delle novelle di Visnusarma si fecero presto edizioni e traduzioni; e l’opera del Benfey, ricordata avanti, oltre uno studio accuratissimo intorno al propagarsi e diramarsi, ne ha pure una traduzione tedesca di molto valore.
Questa mia in italiano, condotta da me con tutta la maggior diligenza che mi fu possibile, cerca, come meglio potrà, di far conoscere al pubblico nostro, anche a chi non si occupa nè di studi orientali nè di novellistica comparata, questo libro importantissimo per sè e piacevolissimo da leggere. Le difficoltà del tradurre erano grandi, e ciò non solo per il testo non sempre nè semplice nè chiaro, massime nei passi poetici, difficili quasi sempre da intendere, ma anche per la necessità di rendere nella nostra lingua quella bonomia furbesca, quella tinta leggerissima d’ironia, quella spensieratezza quasi spavalda, tutta particolare, e, starei per dire, quell’umorismo, che sono le qualità particolari dello stile del libro. Se sarò riuscito nell’ardua impresa, non so; so e posso dire che vi ho posto ogni cura e ogni studio, serbandomi pur sempre fedele al testo anche nei passi in versi. Intanto, per il testo, mi sono valso di quello del Kosegarten, stampato a Bona nel 18485; ma perchè gli errori di stampa non vi sono infrequenti, e la lezione forse non è sempre la più giusta, così mi è stato di molto aiuto un altro testo, pubblicato a Calcutta nel 1885 con un commento in sanscrito dal Pandita Givananda Vidyasagara6. Il confronto dei due testi mi ha dato modo di evitare non pochi errori e il commento sanscrito mi ha fatto meglio comprendere il senso di molte parole e frasi o rare od oscure, mettere al loro giusto posto certi passi poetici. Ciò, tuttavia è stato fatto da me con molta parsimonia e con molta cautela, non avendo voluto, anche perchè non sono da tanto, nè preteso di rifare il testo a modo mio. Del resto, i pochi punti dove trovasi divergenza dei due testi da me adoperati o dove ho preferito questa a quella lezione, sono tutti registrati nelle note. Queste pure sono brevi e poche, intese soltanto a dichiarare ciò che si dice nel testo. Anche mi sono valso dell’opera, già più volte ricordata, del Benfey, e anche ho ricorso, nei punti scabrosi e difficili, alla forbita traduzione del Fritze, che è stata fatta tuttavia, sebbene con non molte differenze, sopra un altro testo7. Quanto alla trascrizione dei nomi propri, ho procurato di accomodarla alla pronuncia italiana, parendomi inutile una trascrizione scientifica, che riuscirebbe incomoda alla maggior parte dei lettori, in libro che dovrebbe e potrebbe essere di piacevole e amena lettura.
E ora, poichè questa è la prima volta che io do fuori un lavoro mio di lingua e letteratura sanscrita, mi sia permesso di attestar anche una volta la mia gratitudine ai Maestri che hanno sorretto i miei primi passi in questa difficile disciplina. Sono essi il Professore Emilio Teza e il Professore Michele Kerbaker, ai quali mi professo discepolo affezionato e riconoscente. Intanto, ricordando questi benemeriti, non posso a meno di correr con la mente ad un altro Maestro mio, al Professore Fausto Lasinio, che, in quest’anno appunto, compie l’anno trentesimottavo del suo insegnamento universitario, felice di potergli fare ogni mio augurio più lieto in questa lieta occasione, certo come sono che all’augurio mio s’accompagnerà pur quello di tanti e tanti altri che hanno avuto l’onore e la gloria d’annoverarsi fra i suoi discepoli.
Torino, 18 febbraio 1896.
I. Pizzi.
Note
- ↑ Pantschatantra, Fünf Bücher ind. Fabeln, mit Einleitung, von Th. Benfey. Leipzig, 1859. — Vedi anche Silvestre De Sacy, Calila et Dimma ou Fables de Bidpaï en arabe, précédées d’un mémoire sur l’origine de ce livre, etc. Paris, Impr. Roy., 1816.
- ↑ Introduzione al Solwan el Mota’ ossiano Conforti politici di Ibn Zafer', per M. Amari, pag. lx. Firenze, F. Le Monnier, 1851.
- ↑ Vedi su questa novella una eruditissima dissertazione del Prof. Francesco Pullè nel Giornale della Società Asiatica italiana, vol. IV, pag. 129.
- ↑ Amari, Op. cit., pag. lxii.
- ↑ Pantschatantrum sive Quinquepartitum de moribus exponens. Ex codicibus manuscriptis edidit, cet. Io. Godofr. Ludov. Kosegarten. P. I. Bonnae ad Rhenum, H. B. Koenig, MDCCCXLVIII.
- ↑ Panc’atantram. Çrî-Vishnuçarmanâ samkalitah. Vi. E. upâdhidhârinâ Çrî-Givânanda-Vidyâsâgara-Battâc’âryena samskrtam prakâçitam-c’a. Tritîya-samskaranam. Kalikâtâ-nagaryâm, Sarasvatî-yantre mudritam. 1885
- ↑ Pantschatantra. Ein altes indisches Lehrbuch der Lebensklugheit in Erzählungen und Sprüchen. Aus dem Sanskrit neu übersetzt von Ludwig Fritze. Leipzig, Schultze, 1884. — Il testo seguito dal Fritze è quello procurato dal Kielhorn e dal Bühler nelle Bombay Sanskrit Series, come egli stesso dice nella Prefazione, pag. vii.