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simile pensiero facendomi rabbrividir d’orrore, mossi alcuni passi per andar a precipitarmi in mare; ma essendo l’esistenza dolce cosa, resistetti a quel movimento di disperazione, e mi sottoposi alla volontà del Signore, che dispone a suo talento della nostra vita.
«Non lasciai però di ammucchiare gran quantità di legna minuta, di rovi e di spine secche; ne composi parecchie fascine che legai insieme, e fattone un gran cerchio intorno all’albero, ne assicurai alcune per traverso al di sopra onde coprirmi la testa. Indi mi chiusi in quel ricinto al calar della notte, colla triste consolazione di non aver nulla trascurato per sottrarmi alla cruda sorte che mi minacciava. Non mancò il serpente di venir a girare intorno all’albero, per divorarmi; ma non vi potè riuscire a cagione della trincea da me fabbricata, talchè fece invano fino a giorno il maneggio d’un gatto che assedia il sorcio in un ricovero, ove non può entrare. Finalmente, sorto il dì, si ritirò; ma io non osai uscire dalla mia fortezza finchè non fu comparso il sole.
«Mi trovai sì stanco dall’angustia che il mostro mi aveva recata, tanto aveva sofferto del pestifero suo alito, che sembrandomi la morte preferibile a tanto orrore, mi allontanai, e non più ricordandomi della rassegnazione del giorno precedente, corsi alla spiaggia col disegno di precipitarmi in mare...»
Scheherazade, vedendo l’aurora, cessò di parlare, e la domane ripigliò il racconto, dicendo al sultano:
NOTTE LXXVII
— Sire, Sindbad, proseguendo il suo terzo viaggio, disse: — Dio ebbe pietà della mia disperazione, che mentre stava per gettarmi nell’onde, vidi una