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cati, trovò tentoni la porta, ed uscì mandando urli tremendi....»
Scheherazade non disse di più quella notte, ma la successiva ripigliò così il racconto:
NOTTE LXXVI
— «Uscimmo dal palazzo dopo il gigante,» proseguì Sindbad, «e recatici sulla riva del mare al luogo ov’erano le zattere, le lanciammo subito in acqua, aspettando l’aurora per imbarcarci nel caso che vedessimo venire verso di noi il gigante con qualche guida della sua specie; ma speravamo che s’ei non compariva quando fosse alzato il sole, e se non udivamo più le sue urla, sarebbe stato quello un manifesto segno ch’egli era morto; in tal caso, ci proponevamo di restare nell’isola senza arrischiarci sulle zatte. Ma appena fu giorno, vedemmo il nostro crudel nemico, accompagnato da due giganti, all’incirca della sua grandezza, che lo conducevano, e da altri ancora, che camminavano davanti a lui a precipitosi passi.
«A tal vista, non esitammo più a gettarci sulle zattere, ed allontanarci dalla riva a furia di remi; i giganti, avvedutosene, si munirono di grosse pietre, corsero alla spiaggia, ed entrati anzi nell’acqua fino alla cintola, ce le gettarono con tal destrezza, che, tranne la zatta sulla quale mi trovava, tutte le altre ne rimasero conquassate, e gli uomini che le montavano si annegarono. Io ed i miei due compagni, invece, avendo remigato con tutta la nostra forza, ci trovammo più lontani, e fuor di tiro delle pietre.
«Giunti in alto mare, divenimmo trastullo del vento