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sul proprio conto, recossi agli appartamenti della madre, e brandendo la scimitarra, la minacciò di morte, se sul momento non gli dichiarava da chi egli avesse ricevuta la vita.

«La sultana, atterrita, gli confessò ch’era figlio di un cuoco. — Il sultano non aveva maschi,» gli disse, «e tale privazione l’addolorava assai. La moglie del cuoco ed io ci sgravammo nello stesso giorno, io d’una femmina, ella d’un maschio. Temendo la freddezza del padre per la mia bambina, gli presentai come suo il figlio del cuoco, e questo sei tu. —

«Il misero sultano non seppe, ad onta del suo cordoglio, trattenersi dall’ammirare la penetrazione de’ tre fratelli; laonde, fattili chiamare, volle sapere su che cosa avessero fondato congetture ch’eransi trovate sì giuste. — Sire,» rispose il maggiore, «quando spezzai il pane, ne vidi cadere alcuni grumi di farina, d’onde argomentai che chi l’avea fatto, non avesse avuta forza bastante onde ben impastarlo, e per conseguenza dovesse essere ammalato. — Il grasso del capretto,» disse il secondo, «trovavasi appo all’osso, ed ogni altro animale, tranne il cane, ha il grasso vicino alla pelle. — Ottimamente,» riprese il sultano; «ma veniamo a ciò che mi risguarda. — La nostra ragione per sospettarti di lignaggio volgare,» disse il più giovane de’ fratelli, «è che non ci ammettesti in tua compagnia, benchè il nostro grado sia eguale al tuo. Ogni uomo ha certe qualità che a lui trasmettono il padre, l’avo o la madre. Per esempio, tiene dal primo la generosità o l’avarizia; gli lascia l’altro in retaggio il valore o la viltade; la madre gli compartè la timidità o l’arroganza. — Quanta sapienza!» sclamò il sultano. «Ma che bisogno avete dunque di prendermi ad arbitro delle vostre discrepanze, voi che sì ben v’intendete a decidere le quistioni più astruse? Tornate