Le Laude (1915)/LXXIV. La bontà divina se lamenta de l'affetto creato

LXXIV. La bontà divina se lamenta de l'affetto creato

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LXXIV. La bontà divina se lamenta de l'affetto creato
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LXXIV

La bontá divina se lamenta de l’affetto creato

     La Bontade se lamenta — che l’Affetto non l’ha ’mata,
la Iustizia è appellata — che ne degia ragion fare.
     La Bontade ha congregate — seco tutte le creature,
e danante al iusto Dio — sí fa molto gran romure,
che sia preso el malfatture — e siene fatta vendetta,
c’ha offesa la diletta — nel suo falso delettare.
     La Iustizia enestante — l’Affetto sí ha pigliato,
e con tutta sua famiglia — en prigione l’ha carcerato,
che déi esser condennato — de la ’ngiuria c’ha fatta,
tráglise fore una carta — qual non può contrariare.
     L’Affetto pensa ensanire, — poi che se sente en pregione;
ché solea aver libertade, — or suiace a la ragione;
la Bontá ha compassione, — succurre che non perisca,
de grazia gli dá una lisca — e nel senno el fa tornare.
     L’Affetto, poi che gusta el cibo — de la grazia gratis data,
lo ’ntelletto e la memoria — tutta sí l’ha renovata,
e la volontá mutata — piange con grande desianza
la preterita offensanza — e nullo consólo se voi dare.
     Empreso ha novo lenguaio, — ché non sa dir se non «amore».
Piange, ride, dole e gaude — securato con timore;
e tal segni fa de fuore, — che paiono de om stolto,
dentro sta tutto racolto, — non sente da fuor que fare.
     La Bontade si comporta — questo amore furioso,
ché con esso si confige — questo mondo tenebroso,
el corpo luxurioso — si remette a la fucina,
perde tutta la sentina — che ’l facea deturpare.

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     La Bontá sottra’ a l’affetto — lo gusto del sentimento;
lo ’Ntelletto. ch’è ’n pregione, — esce en suo contemplamento,
l’Affetto vive en tormento, — de lo ’ntender se lamenta,
ché ’l tempo gli empedimenta — del corrotto che vol fare.
     Lo ’Ntelletto, poi che gusta — lo sapor de sapienza,
lo sapor sí l’asorbisce — nella sua gran compiacenza;
gli occhi d’entelligenza — ostopiscon del vedere,
non voglion altro sentire — se non questo delettare.
     L’Affetto non se cci acorda, — ché vol altro che vedere,
ché ’l suo stomaco se more — se non i porge que paidire;
vole a le prese venire, — sí ha fervido appetito,
lo sentir che gli è fugito — piange senza consolare.
     Lo ’Ntelletto dice: — Tace, — non me dare piú molesta,
ché la gloria che io vegio — sí m’è gaudiosa festa;
non me turbar questa vesta, — deveríe esser contento
contentar lo tuo talento — en questo mio delettare.
— Oimè lasso, que me dici? — par che me tenghi in parole,
ché tutto el tuo vedimento — sí me paion che sian fole,
ché consumo le mie mole, — ché non hone macinato,
e tanto agio degiunato — e tu me ne stai mò a gabare.
     — Non te turbar se me vegio — beneficia create,
ca per esse sí conosco — la divina Bonitate;
siram reputati engrate — a non volerle vedere,
però te devería piacere — tutto sto mio fatigare.
     — Tu ce offendi qui la fede — de gir tanto speculando,
e la sua immensitate — de girla abreviando;
e vai tanto asutigliando, — che rompe la ligatura,
e toglime ’l tempo e l’ura — del mio danno arcoverare.
     Lo’Ntelletto dice: — Amore — ch’è condito de sapere,
pareme piú glorioso — che questo che vòi tenere;
se io me sforzo a vedere — chi, a cui e quanto è dato,
será l’amor piú levato — a poterne piú abracciare.
     — A me par che sapienza — en questo fatto è iniuriata,
de la sua immensitade — averla sí abbreviata;
per veder cosa creata, — nulla cosa n’hai compreso,
e tiemme sempre sospeso — en morirme en aspettare. —

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     La Bontade n’ha cordoglio — de l’Affetto tribulato,
poneglie una nova mensa, — ché ha tanto degiunato;
lo ’Ntelletto è admirato, — l’Affetto entra l’ha tenuta,
la lor lite si è finuta — per questo ponto passare.
     Lo ’Ntelletto si è menato — a lo gusto del sapore,
l’Affetto trita coi denti — ed enghiotte con fervore,
poi lo coce co l’amore, — tráine ’l frutto del paidato,
ed ai membri ha dispensato — donde vita possan trare.