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LXXIV

La bontá divina se lamenta de l’affetto creato

     La Bontade se lamenta — che l’Affetto non l’ha ’mata,
la Iustizia è appellata — che ne degia ragion fare.
     La Bontade ha congregate — seco tutte le creature,
e danante al iusto Dio — sí fa molto gran romure,
che sia preso el malfatture — e siene fatta vendetta,
c’ha offesa la diletta — nel suo falso delettare.
     La Iustizia enestante — l’Affetto sí ha pigliato,
e con tutta sua famiglia — en prigione l’ha carcerato,
che déi esser condennato — de la ’ngiuria c’ha fatta,
tráglise fore una carta — qual non può contrariare.
     L’Affetto pensa ensanire, — poi che se sente en pregione;
ché solea aver libertade, — or suiace a la ragione;
la Bontá ha compassione, — succurre che non perisca,
de grazia gli dá una lisca — e nel senno el fa tornare.
     L’Affetto, poi che gusta el cibo — de la grazia gratis data,
lo ’ntelletto e la memoria — tutta sí l’ha renovata,
e la volontá mutata — piange con grande desianza
la preterita offensanza — e nullo consólo se voi dare.
     Empreso ha novo lenguaio, — ché non sa dir se non «amore».
Piange, ride, dole e gaude — securato con timore;
e tal segni fa de fuore, — che paiono de om stolto,
dentro sta tutto racolto, — non sente da fuor que fare.
     La Bontade si comporta — questo amore furioso,
ché con esso si confige — questo mondo tenebroso,
el corpo luxurioso — si remette a la fucina,
perde tutta la sentina — che ’l facea deturpare.