Le Aquile della steppa/Parte seconda/Capitolo VI

Parte seconda — Capitolo VI
Il Loutis

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CAPITOLO VI.


Il “Loutis.„


Non si erano ingannati: l’animale che aveva cercato di sorprenderli nel sonno, era veramente un orso d’una razza speciale, che non si trova che sul continente asiatico e specialmente fra la grande catena che, dipartendosi dall’India, si spinge verso l’Afganistan e la Tartaria in lunghe direzioni.

Infatti non aveva il corpo massiccio degli orsi neri e bruni: era invece di forme svelte, col muso molto aguzzo, le orecchie rotonde e grandi, col pelame nerastro, a striature bianche sul petto e con una specie di criniera sul collo.

Quel bestione che doveva pesar non meno di duecento chilogrammi, avrebbe potuto vincere facilmente un uomo, che non [p. 204 modifica]avesse posseduto la forza straordinaria di Tabriz e soffocarlo con una stretta poderosa, essendo tutti robustissimi e anche coraggiosissimi.

Il kangiarro del gigante, manovrato da quel braccio d’atleta, aveva aperte tre spaventose ferite sul corpo della belva, dalle quali il sangue usciva a torrenti.

— Gli ho spaccata la spina dorsale, — disse Tabriz, che non sembrava affatto impressionato. — Se i bukari e gli usbeki hanno delle pessime pistole, sanno affilare a meraviglia i loro kangiarri.

— Come mai questo animale, che abita ordinariamente le montagne, si trova qui? — chiese Hossein che lo guardava con vivo interesse.

— È quello che mi domandavo anch’io — rispose Tabriz. — Deve essere disceso dal Kasret-Sultan, spinto forse dalla fame.

— Tu le conosci queste bestie?

— Ne ho cacciate parecchie durante la mia gioventù, signore.

— Pericolose, è vero?

— Si rivoltano contro i cacciatori e sono il terrore degli allevatori di cavalli, signore. Quantunque siano amanti del miele e delle frutta, non disprezzano la carne quando l’hanno assaggiata.

Sanno però ricompensare le loro vittime.

— In quale modo, Tabriz?

— Procurando agli allevatori di cavalli degli arrosti squisiti. La carne di queste bestie vince quella dei più grassi montoni e me ne dirai qualche cosa fra poco. —

Il gigante così parlando aveva ripreso il kangiarro e con pochi colpi vigorosi, aveva tagliato le gambe deretane dell’animale.

— Signore, scuoia questi due squisiti bocconi, mentre io preparo il forno. Faremo una colazione magnifica. —

Servendosi sempre del kangiarro scavò una buca profonda un paio di piedi e la riempì di rami secchi accumulando gli uni sugli altri.

— Ecco un forno superbo che cucinerà perfettamente gli zamponi di quel gaglioffo che voleva divorarmi.

È necessario ora avvolgerli nelle foglie, onde non si brucino.

— M’insegni a far cucina tu?

— Così Talmà non avrà da lamentarsi di te. Ah!... Stupido che sono! Non doveva rammentartela! —

Hossein si era rialzato lentamente, pallidissimo.

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— Perdonami, signore, — disse il gigante.

— Anzi parliamone, — disse Hossein incrociando le braccia. — Metti a cucinare gli zamponi prima.

— È fatto, signore — rispose il gigante sbarazzando rapidamente la buca dai tizzoni mezzi consunti e collocando sulle ceneri calde i due prosciutti dell’orso.

Riempì la buca di terra e vi accese sopra una bracciata di rami onde il calore si conservasse sotto.

— Ed ora padrone? — disse.

— Penso a Talmà! — rispose Hossein. — Che cosa mi consigli di fare?

— Uccidere tuo cugino, signore. — È lui che ha pagato le Aquile, ne sono ormai sicuro; è lui che ha tramato tutto, è lui che ha cercato di assassinarci.

Uccidilo senza pietà, senza misericordia!... Se non lo farai tu, giuro sul mio kangiarro, che lo farò io!... Parola di Tabriz!

A te sono sfuggiti certi sospetti che avevano colpito me e tuo zio.

— Il beg?...

— Sì, anche lui si era accorto indubbiamente di qualche cosa, perchè prima che noi lasciassimo la steppa, mi incaricò di sorvegliare Abei.

— Lui!...

— Sì, lui.

— Vuoi farmi impazzire, Tabriz?

— No, ti apro gli occhi. D’altronde forse che non abbiamo le prove che egli ha tentato di assassinarci? Che per maggior sicurezza ti aveva messo dei documenti compromettenti nella fascia? Che cosa vuoi di più? Da un simile uomo si può anche aspettarsi che fosse d’accordo colle Aquile.

— Tabriz, bisogna che l’uccida! — ruggì Hossein.

— Sono del tuo parere, signore.

— Ma di Talmà che cosa sarà successo? — gridò il povero giovane, prendendosi disperatamente la testa fra le mani. — È questo che io vorrei sapere. —

Tabriz stava per aprire le labbra ed esprimere forse qualche terribile sospetto, poi subito le rinchiuse. Certo non osava dire quello che pensava riguardo la sorte di Talmà.

— Dimmi qualche cosa, Tabriz, — disse Hossein.

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— Calmati, signore, — rispose finalmente il gigante. — Hai tu dimenticato tuo zio? Quell’uomo non lascerà la tua fidanzata nelle mani dei banditi, dovesse sacrificare metà della sua fortuna per mettere in armi tutti i Sarti della nostra steppa.

— Ed a chi la darà poi se qualcuno spargerà la voce che io sono stato ucciso sotto le mura di Kitab?

— Vorrà ben accertarsene prima, signore. Il beg non si accontenterà di una semplice voce e manderà indubbiamente dei messi fedeli a Kitab per assumere informazioni sulla nostra sorte.

E poi non siamo ora liberi noi?

— Non siamo ancora usciti dalla steppa della fame, Tabriz.

— Bah!... Gli usbeki ci crederanno sepolti sotto le sabbie o portati via da qualche tromba e non perderanno tempo a cercare i nostri cadaveri.

Di costoro non mi preoccupo punto e sono più che certo che ora quei furfanti galoppano verso Bukara. —

Hossein pareva che si fosse tranquillizzato. L’accesso di disperazione che l’aveva colpito poco prima era, se non del tutto, almeno in parte scomparso.

— Può darsi che tu abbia ragione — disse finalmente. — Quanto credi che sia lontano l’Amur-Daria?

— Non potremo raggiungerlo prima di otto giorni, padrone. Non possiamo contare che sulle nostre gambe e pur troppo noi, abituati a vivere quasi sempre sui cavalli, siamo pessimi camminatori.

Cerchiamo di far onore al pasto se vogliamo rimetterci in forza, poi ce ne andremo portando con noi qualche provvista.

— E dell’acqua soprattutto.

— Sì, padrone.

— Che non sapremo dove mettere non avendo noi nessun recipiente.

— L’orso ci offrirà la sua vescica e quella ne conterrà parecchi litri.

Padrone, l’arrosto deve essere cotto a puntino. Dimentica tutto e lavora di denti. —

Colla punta del kangiarro disperse i tizzoni quasi semi-spenti, ammucchiati sopra la buca, scavò il suolo e senza badare all’intenso calore che si sprigionava da quel forno primitivo, levò destramente l’arrosto, il quale esalava un profumo squisito.

[p. 207 modifica]— Ecco un boccone che anche l’Emiro di Bukara ci invidierebbe, — mormorò il gigante.

Strappò da un cespuglio alcune larghe foglie e vi depose il zampone, dopo averlo sbarazzato del suo involucro.

— Cottura perfetta, signore, — disse. — Vedi come la pelle è magnificamente screpolata e arrosolata? —

Tagliò l’arrosto in quattro parti e si misero tutti e due a mangiare.

Avevano ingoiati però pochi bocconi, quando una voce gioviale disse dietro di loro:

— Buona sera, signori. Non vi è nulla per un povero loutis che muore di fame e che non ha più la sua scimmia per guadagnarsi da vivere? —

Tabriz e Hossein, colti all’improvviso, balzarono precipitosamente in piedi, impugnando i kangiarri.

L’uomo che era sbucato fra le macchie d’astragalli, fece un cenno con ambe le mani, come per dire:

— Da un povero diavolo par mio non avete nulla da temere, signori.

— To’! — esclamò Tabriz dopo d’averlo squadrato attentamente, — io ti ho veduto ancora.

— E anch’io, signore — disse Karaval, poichè era lui.

— Tu facevi parte della carovana che conduceva a Bukara i prigionieri fatti a Kitab, è vero?

— Sì, io la seguivo per divertire colle mie scimmie quei disgraziati e nel medesimo tempo per guadagnare qualche cosa.

— Se non m’inganno avevi un compagno.

— Anche questo è vero, — rispose Karaval.

— Come ti trovi ora qui? — proseguì Tabriz, guardandolo un po’ sospettosamente. — Perchè non hai seguita la carovana?

— Nel momento in cui le sabbie precipitavano sull’accampamento degli usbeki, mi sono sentito sollevare in aria e scaraventare non so dove. Una tromba mi avrà preso fra le sue spire e portato via.

— Come siamo stati portati via noi, — disse Hossein.

— Quando rinvenni, mi trovai solo in mezzo alle dune, colle ossa tutte peste. — Mi orizzontai come meglio potei e cercai di riguadagnare l’accampamento, ma non trovai più ne tende, nè usbeki, nè prigionieri, nulla.

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— Erano partiti tutti?

— Uhm! ne dubito, mio signore, — rispose il birbante. — Io credo che quei poveri diavoli siano rimasti sotto la sabbia insieme coi cammelli.

— Non sei però certo, — disse Tabriz.

— Là dove si erano accampati non ho veduto altro che una enorme collina sabbiosa. Se avessi avuto qualche istrumento, per tentare qualche scavo, sono sicuro che sotto avrei trovato degli uomini e anche degli animali.

— E poi? Continua.

— Poi mi sono messo subito in marcia per raggiungere quest’oasi, onde non espormi al pericolo di morire di sete.

— Dunque tu conosci questa steppa?

— Vi sono nato, signore, e poi noi, conduttori di scimmie, camminiamo tutto il tempo della nostra vita, sicchè la Tartaria, la Persia, i Kanati e il Belucistan ci diventano presto famigliari.

— Siedi fra noi allora e mangia — disse Hossein. — Abbiamo carne in abbondanza.

— Lo vedo, signore, — rispose Karaval gettando uno sguardo ardente sull’orso che giaceva a pochi passi dal forno.

Tutti e tre si rimisero a lavorare di denti senza aggiungere altra parola. Il birbante divorava avidamente come se non avesse mangiato da quarantott’ore; però, quando non si vedeva osservato, fissava intensamente ora il gigante ed ora il nipote del beg e un fugace sorriso malizioso gli spuntava sulle sottili labbra.

Il furfante doveva essere ben contento di aver ritrovati i fuggiaschi!

Terminato il pasto, inaffiato da una lunga sorsata d acqua, non avendo nemmeno il mostratore di scimmie un sorso di kumis, i tre uomini s’accordarono, prima di lasciare l’oasi, di cucinare un altro pezzo d’orso e di preparare un otre per non esporsi al pericolo di morire di sete durante il viaggio nella steppa.

Quei preparativi però richiesero parecchie ore e non fu che verso il tramonto che i tre uomini lasciarono il rifugio, incamminandosi nella direzione opposta, che avrebbe dovuto tenere la carovana.

Tabriz, sempre sospettoso, non aveva prestata intera fiducia alle affermazioni del mostratore di scimmie.

La steppa sabbiosa, dopo un uragano, cambia sovente aspetto [p. 211 modifica]e non è facile riconoscere un luogo che prima era ben noto, accumulandosi le dune in modo straordinario e cambiando totalmente forma, altezza e direzione.

La regione che percorrevano era tutta coperta di tepè, cioè di monticelli composti, più che di sabbia, di terra finissima, disposta a strati orizzontali pieni di avanzi di animali. Nessun essere vivente animava quella terribile steppa della fame, nessuna erba o cespuglio la rallegrava.

Le lepri e le gazzelle che sono così comuni nelle altre steppe e anche le piccole e deliziose ottarde, mancavano assolutamente.

— Che brutto paese! — esclamava Hossein che camminava a disagio su quei monticelli, tanto più che non era abituato a far lunghe passeggiate.

— E ne avremo almeno per otto giorni, è vero, loutis? — rispondeva Tabriz che sudava copiosamente.

— Sì, prima di riveder le limpide acque dell’Amur-Darja, mio signore.

— Non c’inganneremo noi sulla buona direzione? — chiedeva Hossein.

— Un mostratore di scimmie non si sbaglia mai. Noi vi giungeremo di certo, se potremo rinnovare la nostra provvista d’acqua e se le nostre gambe non cederanno. —

Il sole era tramontato da parecchie ore e i nostri viaggiatori, estremamente stanchi, si decisero di fermarsi fra due alte dune, che formavano una specie di burroncello piuttosto profondo, dove si trovavano gli scheletri di alcuni cammelli e di alcuni cavalli.

— Siamo in compagnia poco allegra, — disse Tabriz. — Però questi morti ci daranno meno fastidio dei vivi.

— Se è vero che anche i vivi che ci tenevano compagnia siano morti, — rispose Hossein.

— Speriamo che siano rimasti sepolti sotto una montagna di sabbia, signore. Se fossere scampati alla burana sarebbero già alle nostre spalle, seguendo le nostre tracce che si conservano su questi terreni fino a che non soffia il vento.

Loutis, sai dove ci troviamo?

— A non molte ore di marcia da un’altra oasi, — rispose Karaval. — Vi giungeremo prima di mezzodì.

— Troveremo acqua colà?

— Lo spero signore.

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— E anche animali?

— In tutte le oasi non ne mancano.

— Se siamo così vicini, sarà meglio dividere la notte in quarti di guardia, — disse Hossein.

— È inutile signore, — rispose Karaval. — Nessuno verrà a turbare il nostro sonno; possiamo dormire tranquilli.

Fra le dune, dove l’acqua manca, non si vede quasi mai nessuno.

Ceniamo e dormiamo onde essere ben riposati per domani all’alba. —

Divorarono un altro pezzo d’orso, si dissetarono parcamente, si scavarono una buca nella sabbia e vi si lasciarono cader dentro, dopo essersi messi a fianco le armi.

Non erano trascorsi dieci minuti che Tabriz e Hossein dormivano della grossa.

Non così però Karaval. Il bandito, forse più abituato alle marce a piedi, o meno dormiglione, aveva ancora gli occhi aperti e con un orecchio appoggiato sulla sabbia pareva che ascoltasse con profonda attenzione.

Mezz’ora era già trascorsa, quando bruscamente, quantunque silenziosamente, si alzò.

— Deve essere lui, — mormorò.

— Non è tanto stupido quanto io l’avevo creduto. —

Si levò in piedi, badando di non far scricchiolare le sabbie e guardò quasi ferocemente Tabriz e Hossein, che dormivano profondamente l’uno presso all’altro, tenendo una mano sui loro kangiarri.

— Sarebbe una bella occasione e tutto sarebbe finito! — mormorò. — Due!... E poi con quel gigante che può reggere a parecchie palle di pistola meglio d’un orso!... Fin che ammazzo l’uno, l’altro mi salta addosso e allora, mio caro Karaval, addio ai tuoi sogni ambiziosi!... Non rimarrà che Hadgi, sempre Hadgi, quell’imbecille!...

No, meglio essere prudenti e aver pazienza. Io non sono uno stupido. —

Attese alcuni minuti, poi vedendo che nè Tabriz, nè Hossein si muovevano, scivolò lungo la duna più alta, senza produrre il menomo rumore.

La salì carponi e giunto sulla cima si fermò, borbottando:

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— Non deve essere lontano; i miei orecchi non s’ingannano mai e percepiscono sempre i più deboli rumori.

Un capo brigante deve avere l’udito finissimo se vuol diventare... —

Si era bruscamente interrotto, armando per precauzione una pistola che si era levata di sotto alla lunga zimarra e che il rigonfiamento della lunga e altissima fascia aveva impedito a Tabriz ed a Hossein di scorgere.

— Un futuro capo deve essere sempre prudente — disse.

Un’ombra, che l’oscurità impediva di ben definire, era comparsa sulla cima d’un’altra duna e si era fermata, probabilmente animata dallo stesso spirito di diffidenza che aveva invaso il bandito.

— Non mi sembra un animale, — borbottò finalmente Karaval.

Accostò due dita alle labbra e mandò un lievissimo fischio, appena modulato. Un segnale eguale rispose subito, poi l’uomo che stava sulla duna opposta si lasciò scivolare sulla sabbia, toccando il fondo.

Karaval l’aveva immediatamente imitato.

— Non mi sono ingannato: Dinar, — disse il bandito. — Ragazzo mio, tu diventi un bravo brigante e più rapidamente di quello che credevo.

— Ho una buona guida — rispose modestamente il giovane.

— Se continui così, tu diverrai un giorno, quando avrò sotto i miei ordini una banda di Aquile, il mio luogotenente.

— Sarò l’uomo più fortunato della terra.

— Ah!... Anche tu sei ambizioso!... Bene, benissimo, coll’ambizione si può conquistare anche il mondo.

— Vi ho seguiti senza difficoltà. Sono dunque loro?

— Per Alì, Maometto e tutti i Santi del nostro paradiso!...

— Non ho mai dubitato della tua sagacia, Karaval.

— Sarai mio luogotenente, figliuol mio. Sai nulla dei Bukari?

— Non li ho più riveduti.

— Che siano morti davvero?

— Ne ho il sospetto.

— Allora abbiamo fatto bene a darcela a gambe anche noi, quando abbiamo veduto il nipote del beg e Tabriz a scappare. È stato un grave rischio però.

— E che cosa intendi di fare ora, Karaval? —

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Karaval si accarezzò la barba per qualche istante, guardando le stelle come se aspettasse da quelle qualche ispirazione, poi disse con voce grave:

— È necessario ricondurli a Bukara. — Dalle mani dell’Emiro non usciranno vivi, di questo sono sicuro e poi noi riceveremo un altro compenso, così prenderemo due piccioni con una fava.

— Sei un genio, Karaval. E come faremo a riconsegnarli all’Emiro?

— Sull’Amur-Darja vi è un posto di usbeki e di ghirghisi, metà briganti e metà soldati dell’Emiro, incaricati di guardare la frontiera.

Io conosco il capo che li comanda perchè un tempo era anche lui un’Aquila.

— Continua.

— Hai paura di attraversare da solo la steppa della fame?... Tu sei giovane e le tue gambe sono robuste ed in sei giorni potresti giungere al posto, fors’anche in otto, perchè si trova più al nord della strada carovaniera che conduce a Bukara e abboccarti con quel capo. Con cinquanta tomani quell’uomo sarebbe capace di andare in capo al mondo e di affrontare qualunque pericolo. E poi lui avrà di certo una ricompensa dall’Emiro.

— E poi?

— Ritorni stupido, ragazzo? Mi pare che anche un bambino potrebbe ora capire ciò che poi accadrebbe. Io conduco i miei due uomini verso l’Amur-Darja, il capo è pronto, ci ferma e ci prende tutti e tre. Hai capito?

— Sì, Karaval.

— Una volta presi ci conduce a Bukara e il colpo è fatto.

— Tu diverrai un gran capo.

— Non ne dubito neppure, — rispose gravemente Karaval, lisciandosi la barba.

— Ed il signor Abei non lo informeremo di ciò?

— Ci vorrebbero quindici o venti giorni per raggiungere la steppa dei Sarti, e poi non abbiamo nessuno su cui contare e fidarci. Saprà tutto al nostro ritorno.

— Dove si trova quel capo tuo amico?

— A Georlu-Tochgoi: sai andarci?

— Vi ho pescato coi cormorani in mia gioventù. Abbondano [p. 215 modifica]le garitse laggiù, quei pesci squisiti che tanto piacciono a noi uomini della steppa.

— Figliuol mio, parti senza indugio e cerca soprattutto di arrivare a quel luogo e possibilmente intero.

— Addio Karaval. —

Il giovane loutis si gettò sulle spalle una bisaccia che doveva contenere certamente dei viveri, si mise le pistole sopra la fascia e risalì la duna scomparendo, come un’ombra, dall’altra parte.

— Ecco come si fanno gli affari, — disse Karaval stropicciandosi allegramente le mani. — Hadgi, di fronte a me, non è altro che un cretino.

Ed ora andiamo a ritrovare i miei protettori. —