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Nella steppa della fame. 215

le garitse laggiù, quei pesci squisiti che tanto piacciono a noi uomini della steppa.

— Figliuol mio, parti senza indugio e cerca soprattutto di arrivare a quel luogo e possibilmente intero.

— Addio Karaval. —

Il giovane loutis si gettò sulle spalle una bisaccia che doveva contenere certamente dei viveri, si mise le pistole sopra la fascia e risalì la duna scomparendo, come un’ombra, dall’altra parte.

— Ecco come si fanno gli affari, — disse Karaval stropicciandosi allegramente le mani. — Hadgi, di fronte a me, non è altro che un cretino.

Ed ora andiamo a ritrovare i miei protettori. —


CAPITOLO VII.


Nella steppa della fame.


Un po’ prima dell’alba, desiderando approfittare della frescura mattutina, Tabriz e Hossein, guidati da Karaval, riprendevano la marcia attraverso all’arida ed interminabile steppa della fame.

Quell’immensa pianura sembrava che fosse diventata ancor più brulla del giorno innanzi. Le dune di sabbia, impregnate fortemente di laminelle di sale, si succedevano senza interruzione, gettate là a capriccio dalle raffiche furiose della burana, senza un filo d’erba, senza nemmeno una magra gramigna.

Un silenzio di morte, silenzio impressionante, regnava attorno ai tre uomini: non il grido d’un uccello, non il trillo d’un grillo, non il ronzio d’un insetto qualunque. Non per niente i turchestani l’hanno battezzata la steppa della fame.

Quantunque la stagione fosse già avanzata, regnava ancora, fra quelle dune interminabili, una temperatura da forno, che metteva a dura prova la resistenza di Hossein e di Tabriz non troppo abituati ai climi ardenti, poichè la loro steppa, anche nell’estate, è relativamente fresca e bene ventilata.

Solo Karaval procedeva con passo sicuro, infischiandosi del polverone che sollevavano i suoi piedi e delle ardenti carezze del sole. Si vedeva che il birbante era ben acclimatato e che quella terribile e aridissima steppa gli era molto familiare.