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206 Capitolo sesto.

— Calmati, signore, — rispose finalmente il gigante. — Hai tu dimenticato tuo zio? Quell’uomo non lascerà la tua fidanzata nelle mani dei banditi, dovesse sacrificare metà della sua fortuna per mettere in armi tutti i Sarti della nostra steppa.

— Ed a chi la darà poi se qualcuno spargerà la voce che io sono stato ucciso sotto le mura di Kitab?

— Vorrà ben accertarsene prima, signore. Il beg non si accontenterà di una semplice voce e manderà indubbiamente dei messi fedeli a Kitab per assumere informazioni sulla nostra sorte.

E poi non siamo ora liberi noi?

— Non siamo ancora usciti dalla steppa della fame, Tabriz.

— Bah!... Gli usbeki ci crederanno sepolti sotto le sabbie o portati via da qualche tromba e non perderanno tempo a cercare i nostri cadaveri.

Di costoro non mi preoccupo punto e sono più che certo che ora quei furfanti galoppano verso Bukara. —

Hossein pareva che si fosse tranquillizzato. L’accesso di disperazione che l’aveva colpito poco prima era, se non del tutto, almeno in parte scomparso.

— Può darsi che tu abbia ragione — disse finalmente. — Quanto credi che sia lontano l’Amur-Daria?

— Non potremo raggiungerlo prima di otto giorni, padrone. Non possiamo contare che sulle nostre gambe e pur troppo noi, abituati a vivere quasi sempre sui cavalli, siamo pessimi camminatori.

Cerchiamo di far onore al pasto se vogliamo rimetterci in forza, poi ce ne andremo portando con noi qualche provvista.

— E dell’acqua soprattutto.

— Sì, padrone.

— Che non sapremo dove mettere non avendo noi nessun recipiente.

— L’orso ci offrirà la sua vescica e quella ne conterrà parecchi litri.

Padrone, l’arrosto deve essere cotto a puntino. Dimentica tutto e lavora di denti. —

Colla punta del kangiarro disperse i tizzoni quasi semi-spenti, ammucchiati sopra la buca, scavò il suolo e senza badare all’intenso calore che si sprigionava da quel forno primitivo, levò destramente l’arrosto, il quale esalava un profumo squisito.