La vigna sul mare/Inverno precoce
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INVERNO PRECOCE
Ci siamo impuntati, quest’anno, a rimanere oltre il necessario nella casa in riva al mare. E il mare si vendica, da par suo.
— Andate via, andate via; avete ingombrato abbastanza, con le vostre ore di ozio e di noia, e le vostre inutili fantasticherie, la spiaggia dovuta a ben altre cose, — pare dica col suo primo corrucciato brontolìo; — fate posto ai rudi pescatori invernali, che già piantano i loro pali sull’arenile seminato di arselle vive: e, più secchi dei loro pali, offrono, se occorre, anche la loro vita per il pane alle loro donne e ai loro bambini.
Infatti è vero: i pali, tagliati dai garruli pioppi che già rallegravano i viali per le nostre passeggiate, annunziano la tristezza invernale e la carestia delle famiglie povere: i grandi imbuti di rete delle sciabiche si allungano sulla riva, fra i granchi morti sgretolati dal vento: c’è intorno odore di camposanto.
Poi, data la nostra cinica indifferenza, il mare tace, ma di un silenzio minaccioso di profeta che medita sull’indegnità umana: e tenta anche di sparire ai nostri occhi, confondendosi coi vapori grigi dell’orizzonte: si ha voglia di camminare sulla spiaggia ancora gialla e lucida, ma di un giallo di vecchia dama ossigenata: voglia di andare a cercare ancora con la punta dei piedi nudi l’onda molle e felina; fa freddo, però: un freddo anch’esso insolito, quasi ambiguo: non quello tedioso della città, né il gelo amico della montagna: è, più che altro, una sensazione nostra interna, un brivido di disperazione, come se debba avvicinarsi l’inverno polare, con la morte del sole e le muraglie di ghiaccio.
Dentro casa si sta ancora bene, coi fornelli accesi, nella cucina ridanciana di pomidoro e di peperoni fiammanti: il cefalo si lamenta sulla graticola, e il suo fumo di sacrifizio ammorba allegramente tutta la casa, penetrando anche nel presuntuoso salottino, che fino a ieri offriva ai visitatori le sue fresche sedie di salice bianco, e oggi sembrerebbe una ghiacciaia senza la bocca rosea del caminetto piena, come quella di un’amante, delle più ardenti promesse.
Manca la legna (oh, imprevidenza giovanile della bella stagione!); ma si farebbe presto a mandarne a chiedere una cesta al nostro buon vicino, il vecchio colono Panfilio; e con la legna, per accendere il fuoco, una manciata di foglie secche rastrellate sotto la pineta, della quale, con la fiamma, sprigionano ancora l’aroma e il chiarore dei tramonti estivi. Panfilio sarà beato di servirci, poiché il suo cuore è impastato di generosità; ed è ben lui, povero, che spesso dona ai suoi ricchi vicini i frutti del suo orto, l’uva, il primo vino nuovo dolce e innocente come la granatina: e infine la pieda calda, la focaccia di Romagna che ha il sapore inconfondibile del frumento italiano. Pensando a questo vecchio lavoratore della terra, che vive veramente del suo sudore, che ha una cucina, casa assieme e fortificazione, come nei felici tempi preistorici, che ha il giaciglio accanto al camino e la lampada sopra l’arca colma di farina, in questi giorni di freddo, e talvolta, per la lontananza del paese e la poca puntualità dei fornitori di viveri, anche di carestia, si prova un vago senso d’invidia o, almeno, di ammirazione.
Ma non bisogna insistere su questo tasto, per non destare, a nostra volta, sorrisi di compatimento: volgiamo invece il pensiero ad un’altra casa, non molto distante dalla nostra, e bella anch’essa e ricca, sebbene non circondata di vigne e di poderi; la casa del poeta Marino, dove forse a quest’ora, nelle stanze leggiadre di mobili antichi e di guizzanti quadri moderni, si raccolgono amici letterati e donne intelligenti: il calore delle discussioni d’arte appanna i vetri delle finestre, nascondendo la tristezza del tempo; e in mezzo alla sala terrena, che una volta fu una gloriosa pizzicheria, appare un fantasma, rifulgente e triste come un arcangelo addolorato: è Garibaldi, che in fuga verso il lido di Ravenna, con i suoi ultimi seguaci e Anita già toccata dall’alito della morte, si rifornisce per essi di pane e di altri viveri.
Ma ecco che adesso la sera si addensa, e i vapori dell’orizzonte si mettono in viaggio su per il cielo. Il mare scopre il suo viso, calmo, ma di una calma funerea: e non si dà l’aria di esser lui a mandar su tutti quei globi di lana grigia che a poco a poco danno al cielo un miserevole aspetto di materasso sfatto. Un momento, e il cielo sdegnosamente, si scrolla di tutta quella robaccia: ma subito dopo è invaso da torme di bestie fantastiche: elefanti e tigri, balene e pescicani s’inseguono e si divorano a vicenda: il loro sangue lascia tracce visibili sui margini del cielo; vaghi bagliori di fuoco, vene di azzurro, macchie di mosto e persino civettuoli scampoli di crespo rosa, accompagnano la nuova invasione di nuvole più miti; ad occidente il sole, prima di tramontare, dà un fulmineo sguardo alla terra, come per assicurarsi che il padrone di ogni cosa è pur sempre lui: e tutto gli sorride, anche il mare già ricoperto della sua corazza infernale di tempesta: attimo di tregua, dopo il quale s’alza la voce terribile del vento.
*
Aveva una sete insaziabile, quella sera, il vento: sete di mostro: bevette le onde, sollevando una tromba marina; spinse bestialmente di qua e di là le barche da pesca, e una la schiantò come una noce: due dei pescatori che v’erano dentro sparvero tra i flutti.
Notte di angoscia inumana, quando per vincere la tentazione di non credere più in Dio, bisogna ricordare la Sua parola, fermata nelle sacre scritture. Notte in cui le porte dell’inferno sembravano davvero aperte, e da esse scaturisse il rombo della tempesta. Pioggia, tuoni che sfioravano con la loro sega mostruosa i muri della casa: e i sibili del vento, mefistofelici; e, dominatore implacabile, il rumore delle onde. Adesso, sì, aveva ripreso la sua voce delle grandi occasioni, il mare senza pietà; e davvero la sua parola rassomigliava a quella di un dio sterminatore.
Chiusi alla meglio in casa, si aveva paura di andare a letto: da un momento all’altro un maremoto ci poteva spingere ad una fuga tragica: e le cose dolci della vita di ogni giorno, i nostri buoni mobili, le piccole tovaglie pallide negli angoli scuri, e i fiori — i fiori in quella notte! — ci apparivano come in un cupo vaneggiare di allucinazione. I fiori sopra tutto: i gerani di carminio esasperato, le dalie violette e le tuberose coi loro grappoli di carne feminea, il cui profumo vinceva anche l’orrore della tempesta. Poi, un brutto momento, mancò la luce: parve da prima uno scherzo, o che le lampadine chiudessero gli occhi stanche di stare così a lungo accese: si aspettò, sospesi in quel grande squilibrio universale: poi qualcuno rise: e quando l’uomo ride, di cuore, è segno che il padrone definitivo della situazione è lui. Furono accese le umili candele steariche, e qualcuno disse: viva l’antichità! Era probabilmente lo stesso individuo che ammirava il contadino Panfilio seduto davanti al suo focolare acceso. E le candeline anemiche si fecero forza per allungare le loro fiammelle, piangendo per la gioia tutte le loro lagrime bianche.
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Durò tre giorni, la tempesta; in mare si tentava invano la ricerca dei pescatori annegati, e il porto, con le paranze abbrunate, pareva un cimitero. Tutto il paese rabbrividiva con quell’acqua livida di angoscia, che pareva non dovesse più riflettere i colori delle vele afflosciate: e il dolore di noi tutti fasciava, per sorreggerla, la casa degli annegati, dove le donne e i bambini si ostinavano ad aspettarne il ritorno.
I nostri fiori furono buttati via, poiché pareva avessero una tinta di scherno; buttati in una buca in riva al mare; ma mentre i gerani si scioglievano in gocce di sangue, le tuberose continuarono a profumare anche la loro tomba. E nella nostra casa, le pareti già sane e fresche di gioventù, si coprirono di macchie d’umido, sinistre come quelle dei malati d’infezione al sangue.
Furono sette giorni d’incubo. Il vento di tramontana parve alzarsi in offesa allo scirocco, per respingerlo ed aiutare i pietosi che cercavano gli annegati: infranse le nuvole, mandò verso oriente le onde crudeli: di notte si sentiva il motore dei sommergibili che aravano le profondità marine e non lasciava in pace l’anima nostra neppure nel sonno. Nel porto le barche da pesca rimasero ferme, legate al molo come prigioniere: non una andò in mare finché i morti continuavano a navigare coi pesci. Al settimo giorno finalmente, la terribile pesca ebbe il suo esito: gli annegati furono rinvenuti. Quando il guardiano della spiaggia ci portò la notizia, i suoi occhi di delfino brillavano di gioia. E alla mia domanda se i corpi degli sventurati erano ancóra intatti, egli rispose:
— Sì, solo qualche morsicatura. Capirà, i pesci....
*
Allora si andò a salutare un’ultima volta la spiaggia rasserenata. Il mare, dorato e buono, sembrava un campo di grano; i bambini si cacciavano dentro l’imbuto della sciabica, felici come nel grembo della madre: un pesciolino morto, di madreperla azzurra e verde, luccicava sulla sabbia, pur esso vittima della tempesta.