Capitolo I

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La via del male II
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I.


Pietro Benu si fermò un momento davanti alla chiesetta del Rosario.

— È appena la una — pensò. — Forse è troppo presto per andare dai Noina. Dormiranno, forse. Quella gente è ricca e si prende tutti i comodi.

Dopo un momento d’esitazione riprese la strada, dirigendosi al vicinato di Sant’Ussula, che è all’estremità di Nuoro.

Era ai primi di settembre; il sole ancora ardentissimo saettava le straducole deserte: solo qualche cagnolino affamato passava lungo le striscie d’ombra merlata che si stendevano davanti alle casette di pietra.

Il roteare d’un molino a vapore interrompeva, in lontananza, il silenzio meridiano: e quel rumore ansante e palpitante pareva l’unica pulsazione della piccola città arsa dal sole.

Pietro, seguito dalla sua corta ombra, animò per qualche momento, col rumore dei suoi scarponi, la solitudine della strada desolala che dalla chiesetta del Rosario va al cimitero: di là egli s’internò nel vicinato di Sant’Ussula, indugiandosi a guardare i piccoli orti invasi da una vegetazione [p. 6 modifica]selvaggia, i cortiletti ombreggiati da qualche caprifico, da qualche mandorlo e da meschini pergolati; e finalmente si fermò ed entrò in una bettola sulla cui insegna stava issata una scopa.

Il bettoliere, un toscano ex-carbonaio, che aveva sposato una paesana di cattivi costumi, stava coricato sull’unica panca della Rivendita — com’egli chiamava dignitosamente il suo buco — e dovette alzarsi per lasciar sedere l’avventore.

Lo guardò, lo riconobbe, e gli sorrise coi suoi grandi occhi chiari e maliziosi.

— Salute, Pietro — gli disse, con un bizzarro linguaggio, nel quale sul puro senese il dialetto sardo s’era impresso come la patina sull’oro; — che cosa cerchi da queste parti?

— Qualche cosa cerco! Dammi da bere, — rispose Pietro con un certo disprezzo.

Il toscano gli diede da bere, guardandolo coi grandi occhi infantili sempre sorridenti.

— Scommettiamo che so dove vai? Vai da Nicola Noina, al cui servizio vuoi entrare. Ebbè, ti avrò per cliente e ne sarò contento.

— Come diavolo lo sai? — domandò Pietro.

— Ma... l’ho saputo da mia moglie: le donne sanno tutto. L’avrà saputo dalla tua Sabina...

Pietro s’accigliò alquanto, pensando Sabina in relazione con la moglie del toscano; ma poi scosse la testa, obliquamente, da destra a sinistra, con un gesto sprezzante che gli era abituale, e tornò sereno; una serenità incosciente che tuttavia aveva qualcosa di sarcastico. [p. 7 modifica]

Anzitutto Sabina non era affatto sua. L’aveva incontrata durante le ultime mietiture, e una notte di luna piena, mentre nell’aia le formiche, in lunghe file silenziose, rapivano il grano, egli, addormentato a bocca a terra, aveva sognato di sposare la fanciulla. Sabina era graziosa: bianca, con un ciuffo di capelli biondi sulla fronte pura. E si mostrava tenera con Pietro e l’avrebbe amato volentieri; ma egli, svegliandosi dal suo sogno, aveva preso tempo per risolversi, e ancora non s’era deciso a dichiararle la sua simpatia...

— Chi è questa Sabina? — domandò, guardando il bicchiere vuoto rosso di vino.

— Bah, non fare lo sciocco! La nipote di zio Nicola Noina! — disse il toscano.

Egli dava il titolo di zio e zia, che i nuoresi danno solo alle persone anziane del popolo, anche ai bimbi, alle fanciulle ed ai signori.

— Non lo sapevo, in verità — mentì Pietro. — Ah, ella ha detto che io voglio entrare al servizio dello zio?

— Non so: l’ho pensato io.

— Eh, tu hai poco da fare, piccolo forestiere, — riprese Pietro, col suo gesto sprezzante — e pensi quello che ti pare e piace. Ebbene, se io volessi davvero entrare al servizio di Nicola Noina, che importa a te?

- Ne sarei contento, ripeto.

— E allora, dimmi, che razza di gente è la famiglia Noina?

— Tu che sei nuorese lo devi saper meglio d’un forestiere, — si schermì il bettoliere, che aveva preso [p. 8 modifica]in mano una specie di piumino di ritagli di carta e scacciava le mosche da un cestino di frutta messo in mostra vicino alla porta.

— Un forestiere vicino ne sa più di un compaesano lontano.

Senza smettere di scacciare le mosche, il bettoliere prese a chiacchierare come una donnicciuola.

— I Noina sono i re del vicinato, lo sai, sebbene siano nuoresi quanto me...

— Cosa dici, diavolo? Se la moglie appartiene ad una famiglia di principali1 nuoresi?

— La moglie sì, ma lui? Chi lo sa di dove è? Neppure egli lo ricorda. È venuto a Nuoro con suo padre, uno di quei negozianti errabondi, che comprano olio da ardere e poi lo rivendono per buono.

— Così si fanno le fortune! E tu non battezzi il tuo vino? — esclamò Pietro, versando al suolo le ultime goccie dal bicchiere.

Sentiva già un istintivo bisogno di difendere, per amor proprio, il suo futuro padrone.

— Nessun bettoliere, a Nuoro, vi dà il vino schietto come il mio — proseguì l’altro. — Domanda allo stesso zio Nicola che se ne intende...

— Ah, è vero, egli è un ubbriacone? — domandò Pietro. — Dicono fosse ubbriaco quando, il mese scorso, cadde da cavallo e si ruppe una gamba, ritornando da Oliena.

— Non so: forse aveva assaggiati molti campioni di vino! Perchè era andato per comprare del [p. 9 modifica]vino. Fatto sta che s’è rotta la gamba, ed ora cerca un servo abile e fidato, perchè egli non può più badare alle cose sue.

— E la moglie che donna è?

— Una donna che non ride mai, come il diavolo. Una vanitosa. Il vero prototipo delle vostre principalesse, che credono d’aver il mondo entro la loro cuffia perchè posseggono una vigna, un chiuso, una tanca, cavalli e buoi.

— E ti par poco, piccolo forestiere? E la figlia, come è? Superba?

— Zia Maria? Una bella ragazza. Ma bella! — disse l’altro gonfiando le guancie. — Quella è buona, umile, buona massaia. Dicono! Io la credo ancor più superba della madre. Devono poi essere avare, quelle due donne, avare quanto zio Nicola è allegrone e prodigo. Ma lo tengono dentro il pugno, così, veh, il povero zio Nicola!

— Questo non m’importa — disse Pietro, guardando il pugno chiuso del bettoliere. — Basta che non siano avare con me.

— Ah, dunque è vero che ci vai? — chiese l’altro, smettendo la sua faccenda.

— Se mi pagano bene, sì. Hanno una serva?

— Niente. Non hanno avuto mai nè servi, nè serve. Fanno tutto da loro. Maria lavora come una bestia: va alla fontana, va a lavare, spazza il cortile e la strada davanti al cortile. Una vergogna, per gente ricca come loro.

— Lavorare non è vergogna. E poi, non dicevi tu, poco fa, che non sono ricchi? [p. 10 modifica]

— Si credono, però. Si credono ricchi perchè vivono in questo vicinato di miserabili. L’essere cresciute, specialmente le donne, fra la perpetua miseria della gente che le circonda, dà loro l’idea d’essere delle regine. Anzi in zia Maria la vanità ha un limite, o almeno è un po’ nascosta, ma zia Luisa ad ogni parola fa sentire di non aver bisogno di alcuno, di esser ricca, d’aver la casa piena di provviste e il cassetto colmo di monete. È una donna schiacciante. Zio Nicola la chiama Madama reale. Non si degna neppure di uscire a prendere il fresco nello spiazzo, assieme alle altre vicine, come fa anche zia Maria. Se ne sta nel suo cortile, accanto al portone spalancato, e se qualche donnicciola lo si avvicina bisogna vedere che arie zia Luisa assume!...

— Ah, dunque — interruppe Pietro, pensieroso, guardando fuor della porta, verso lo sfondo ardente della straducola — lui, il padrone, non è superbo?

— Oh, è un burlone ciarliero: niente altro. Si beffa un po’ di tutti, e si mostra bisognoso di denari. È un furbone, caro mio!

— E in famiglia vanno d’accordo?

— Si capiscono a vicenda come gli uccelli dello stesso nido — disse il forestiere. — Pare che vadano d’accordo: del resto non fanno mai sapere agli altri i fatti loro.

— Tu però sembri bene informato: quasi quanto una donnicciuola... — osservò Pietro, col suo gesto sprezzante. [p. 11 modifica]

— Cosa vuoi? Qui è un luogo di chiacchiere: tutti convengono qui, come le api all’alveare — riprese il toscano, con un bel paragone che fece sorridere Pietro. — Io ascolto e ripeto...

— Quando avrò bisogno di saper qualche cosa, allora, verrò qui...

— Mi pare che ci sii già venuto...

Pietro sbottonò una specie di borsetta applicata alla sua cintura di cuoio, e trasse una moneta di argento.

— Pago. E tua moglie dov’è?

— È andata a cogliere fichi d’India — rispose l’altro, sbattendo sul banco la moneta per accertarsi che non era falsa.

Pietro pensò alla moglie del bettoliere, una bellissima donna dai grandi occhi neri, presso la quale anch’egli una volta aveva passato qualche ora; e per concatenazione d’idee domandò:

— E cosa si dice di Maria Noina? È onesta?

— Ostia, son cose neppure da domandarsi! gridò l’altro. — La figlia di zio Nicola Noina? Lo specchio dell’onestà.

— E fa all’amore, almeno, questo specchio?

— Niente. Vuole un partitone, quella...

— Ebbè, glielo porteremo dal continente... — disse Pietro con beffe, guardando quel forestiere biondiccio e chiacchierone che era venuto dal continente per sposarsi con una donna niente «specchio d’onestà».

Avrebbe voluto sapere altre cose, ma ebbe timore che il bettoliere andasse poi a riferire le sue domande ai Noina, e si alzò. [p. 12 modifica]

— Spero rivederci, Pietro. Fa il contratto con zio Nicola, sai: è un buon uomo, dopo tutto. Tieni duro e vedrai che ti darà tutto quello che vorrai.

— Grazie del consiglio: ma io non vado là — mentì ancora Pietro.

Invece, appena fuori, voltò a destra e s’avvicinò alla casa dei Noina.

Invero, la casetta, bianca e quieta dietro l’alto muro del cortile, pareva guardasse con disprezzo le catapecchie ammucchiate qua e là intorno allo spiazzo e lungo la straducola polverosa. Pietro spinse senz’altro il portone rosso socchiuso ed entrò.

A destra del vasto cortile, lastricato di ciottoli, arso dal sole, pulito e ordinato, Pietro vide una tettoia che funzionava da stalla e da rimessa: a sinistra biancheggiava la casa, con la scala esterna, di granito, rallegrata da ciuffi freschi di campanule attortigliate alla ringhiera di ferro.

Con ordine quasi simmetrico stavano qua e là disposti molti attrezzi contadineschi: un carro sardo, vecchie ruote, aratri, zappe, gioghi, pungoli, bastoni.

Sotto la scala s’apriva una porta; più in là un’altra porta di legno affumicato, con un finestrino sulla parie più alta, indicava l’ingresso della cucina.

Pietro si diresse là, guardò dal finestrino aperto e salutò.

E ite fachief? — Che fate?

— Entra — rispose senz’altro una donna bassa e pingue, dal lungo viso bianco e calmo, incorniciato da una benda di tela tinta con lo zafferano. [p. 13 modifica]

Pietro Benu spinse la porta ed entrò.

— Volevo parlare con zio Nicola.

— Ora lo chiamerò. Siediti.

Il giovane sedette davanti al focolare spento, e zia Luisa uscì nel cortile e salì la scala col suo passo lento e grave.

La cucina rassomigliava a tutte le cucine sarde; larga, col pavimento di mattoni, e il tetto di canne annerite dal fumo; grandi casseruole di rame lucenti, arnesi per fare il pane, spiedi enormi e taglieri di legno pendevano dalle pareti brune. Su uno dei fornelli praticati sul grande forno semicircolare bolliva una piccola caffettiera di rame.

Sopra uno sgabello, vicino alla porta, Pietro osservò un canestro d’asfodelo col necessario per cucire e una camicia da donna con un ricamo sardo appena incominciato. Doveva essere il lavoro di Maria. Dov’era a quell’ora la fanciulla? Forse era andata a lavare, nel torrente della valle, perchè durante il tempo che Pietro stette lì ella non si lasciò vedere.

Solo, dopo un momento, rientrò zia Luisa, bianca, impassibile, con la bocca stretta e il corsetto allacciato nonostante il caldo soffocante; e il passo d’un uomo zoppo risuonò nel cortile.

Appena il giovane servo vide la figura bonaria, il viso colorito e gli occhi brillanti di zio Nicola, si rallegrò lutto.

— Come va? — chiese il proprietario, sedendosi con qualche stento su una larga sedia di paglia. [p. 14 modifica]

— Bene — rispose Pietro.

Zio Nicola allungò la gamba sana, fece una lieve smorfia di dolore, ma subito si ricompose.

Zia Luisa scostò la caffettiera dal fuoco, e si rimise a filare, col piccolo fuso sardo gonfio di lana bianca. Così bassa e tonda, quasi solenne nell’antico costume nuorese, dalla gonna di orbace orlata di verde, con la benda gialla intorno al grande volto enigmatico, dalle labbra strette e gli occhi chiari e freddi, ella pareva un idolo egiziano, e incuteva una soggezione religiosa quanto il marito inspirava confidenza.

— So che cercate un servo — disse Pietro, spiegando e ripiegando la sua lunga berretta nera. — Se mi volete, vengo io. Finisco ora a settembre il servizio da Antoni Ghisu, e se volete...

— Giovanotto — rispose zio Nicola, fissandolo coi suoi occhi brillanti — non ti offenderai se ti dico una cosa: tu non godi una fama spiccata...

Anche Pietro aveva gli occhi grigi luminosi e sostenne quasi violentemente lo sguardo di zio Nicola: benchè sentisse le orecchie ardergli per l’offesa, disse pacatamente:

— E informatevi, allora...

— Non offenderti — disse zia Luisa, parlando a denti stretti e quasi senza aprire la bocca. — Son voci che corrono, e Nicola è un burlone.

— Ma che voci, zia Luisa mia? Che possono dire di me? Non ho mai avuto che fare con la giustizia, io. Lavoro di giorno e dormo di notte. Rispetto il padrone, le donne, i bambini. Considero [p. 15 modifica]come mia la casa ove spezzo il pane e bevo il vino. Non ho mai rubato un’agugliata di filo. Che possono dire di me? — egli chiese, accendendosi in volto.

Zio Nicola non cessava di guardarlo, e sorrideva. Fra la sua barba rossigna e i baffi neri spiccavano le sue labbra fresche e i denti giovanili.

— Eh, dicono soltanto che sei manesco e rabbioso — esclamò — e infatti mi pare che ti arrabbi, ora. Vuoi il bastone?

Gli porse il bastone, accennandoci di bastonare qualcuno, e Pietro rise.

— Ecco — confessò — non nego che sono stato un ragazzo discolo: scavalcavo tutti i muri, salivo su tutti gli alberi, bastonavo i compagni e correvo sul dorso nudo di cavalli indomiti. Ma chi da ragazzo non è stato così? Qualche volta mia madre, poveretta, mi legava e mi chiudeva in casa; io rosicchiavo la cordicella e scappavo. Ma ben presto conobbi il dolore. Mia madre morì, il tetto della nostra casetta sprofondò: conobbi il freddo, la fame, l’abbandono, la malattia. Le mie due vecchie zie mi aiutarono, ma sono così povere! Allora compresi la vita. Eh, diavolo; la fame è una buona maestra! Mi misi a servire, imparai ad obbedire e a lavorare. E ora lavoro: e appena potrò rifare la mia casetta rovinata, e comprarmi un carro, un paio di buoi, un cane, prenderò moglie...

— Ah, diavolo, diavolo, per prender moglie ci vogliono delle vivande.... — disse zio Nicola, serverdosi di un vecchio proverbio sardo. [p. 16 modifica]

Zia Luisa filava e ascoltava, e una piccola piega le increspava la guancia destra, intorno alla bocca.

— Questi pezzenti! Muoiono di fame e sognano di ammogliarsi! — pensava.

— Basta, — disse zio Nicola, battendo il bastone sulla pietra del focolare — ora parliamo del nostro affare e vediamo di combinare.

E combinarono.

  1. Le famiglie distinte del popolo.