Libro III

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Libro II Annotazioni
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LIBRO III.

Ma più felici ormai le selve, e i colli
Del nuov’orbe mi chiamano; da lunge
Risuona il mar oltre l’Erculea meta,
E plaudono remoti i lidi: or canto
5Il gran dono dei Numi, e te da ignoto
Mondo condotta o sacra planta, cui
Dato è impor fine al duolo. — Urania Diva
Venera il sacro bosco, e il crin ricinta
Di nuova fronda, ed in medico ammanto,
10Va mostrando pel Lazio i santi rami.
E me giovi cantar cose non viste
Dai nostri padri, o celebrate unquanco.
Forse avverrà, che alcun preso all’incanto
Di novitade, e a dir uso altre geste,
15Canti le poppe con migliori auspicii
Ose i rischi tentar di Oceano intatto.
Ei dirà pur le terre e i fiumi varii,
E le città, e le genti, e i visti mostri,
Le misurate zone, e le nascenti
20Stelle nell’altro ciel, Arto fra tutte:
Poi le nuove battaglie, ed i vessilli
Dal nuovo orbe recati, e leggi, e nomi.
Canti (nè il crederan l’età venture)
Quanto dell’Ocean l’onda comprende
25Sol da una prora misurato e corso.

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Felice cui tanto donasse un Dio!
D’una sol pianta dir le forze e l’uso
È per me assai, dove scoperta, e come
Strania per tanto mare a noi sia giunta.
30Nell’ampio Ocrano sotto il Cancro ardente
Dove a mezza la notte il Sole a noi
Celasi, quasi ignota avvi a gran tratto
Un’isola che Ispana i scopritori
Disser, ferace in ôr, ma ben più ricca
35Per l’albero che Jaco in sermon patrio
Chiamano. — Liscio egli è; dall’alta cima
Sempre verde chiomata, a grande selva,
Spande di foglie, e piccoletta ed acre
Pende una noce da’ suoi rami in copia.
40N’è dura la materia emula al ferro,
E i tronchi sudan forte ragia al foco.
Tagliati àn color vario; alla corteccia
Verdeggia il lauro pel di fuori, e dentro
À di bosso pallor, fosco è il midollo,
45Fra l’ebano e la noce, e se il vermiglio
Non mancasse, emular l’Iri potrebbe.
Studian le genti a cultivarla assai,
E pianta ell’è, che i colli e i campi aperti
Ovunque veste, nè più santa cosa,
50Nè cara più, àn quelle genti tutte;
Che in quella il Ciel contre la peste pose,
E perpetua, la speme: i grossi rami
Battono forte di corteccia mondi,
O scheggie fan, che immerse in puro fonte
55Beon l’umore, che notte e dì le macera:
Cuoconle poi, nè minor cura àn dessi,
Che l’acqua a caso non infurii, e spanda
La spuma, che soverchia al foco in mezzo.
Ungon di spuma in ver quanto d’immondo
60Resti pel corpo, e l’egre membra strugga.

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La metà presa del divino umore
Ne ripongono il resto; anzi i frammenti
Ricuoprono qual prima, e mel soave
V’aggiungono, che sol questa alle mense
65Bevanda assenton sacerdoti e leggi.
Due bicchier poscia del decotto prima
Beono a più dì, quando Lucifer esce,
E quando tardo in ciel Vespero spunta.
Nè cessan pria, che il suo corso mensile,
70E non compia la Luna intero il giro,
Ch’emulo aggiunga le fraterne bighe.
Celansi intanto entro ai recessi oscuri,
Ve’ non forza di vento, o d’aer fiato
Penetri, e offenda con gelato spiro.
75Che rammentar sopra ogni cosa quanto
Sottil vitto e digiuno ognun s’imponga?
Che loro è assai n’abbia alimento il corpo
A viver solo, nè a mancar di lena.
Pur tanto ah non temer! che il sacro umore
80Le forze, qual ambrosia, anima ed erge;
E le membra digiune occulto pasce.
Appresso il ber, per due sol ore, sotto
Stanno alle coltri, onde il rimedio addentro
Scorra, e sudor dal caldo corpo sprema:
85Nel vano äer così sfuma la peste:
E neppur macchia, o meraviglia! resta.
Ulceri più non v’ànno, il duol partio,
Dalle membra tornate a giovanezza,
E in questo il giro suo Cinzia rinnova.
90Qual Dio quest’usi a quelle genti noti,
E qual caso o destin li trasse a noi,
Ond’anco avemmo il prezioso legno,
Ora dirò. — Di Nereo i seni ascosi
Mossi a cercar dove si corca il Sole,
95Calpe lasciata, e i patrii lidi, il vasto

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Ocëano fendeano i pini arditi
Per ignoto cammino errando a lungo.
Le Nereidi muoveano ad essi intorno,
Mostri del nuovo mar, nuotando in frotta,
100E stupiano in veder le poppe eccelse,
E le volanti in mar vele dipinte.
Notte era, e in puro ciel splendea la Luna,
Chiaro spargente sulle tremul’onde:
Quando l’Eroe dai fati a tanto eletto,
105Duce di flotta in onde vaste errante:
O tu Luna, sclamò, che ai flutti imperi,
Che nel nostro cammin due volte il corno
Mostrasti curvo, e pien sull’aurea fronte,
Dacchè terra non vedesi; o del Cielo
110E della Notte onor, Vergin Latonia,
Deh! toccar danne sospirato un porto.
Ella udì il priego, e per l’aere labendo
In Nereide mutossi, e, qual Cimotoe
O Cloto, stette della nave appresso,
115E, nuotante a fior d’onda, a dir imprese:
Navi mie, non temete: all’indomane
Terra e porto fidalo aver potrete.
Ma non v’arresti il primo lido: il fato
Oltre d’assai vi chiama; al mar in mezzo
120V’à grande isola Ofiri; a lei sia il corso,
E sede avrete e impero. — In così dire
Urta il pino: egli il mar rapido fende. —
Facili spiran l’aure, e già dall’onde
Sorgeva il Sol, quando da lunge ombrosi
125Spuntano i colli, e terra è presso: un grido
Dei nocchieri alla terra invia il saluto,
Alla terra bramata, e in porto amico
Giunti, ai pietosi Dei sciolgono i voti,
E curan l’egre navi, e i corpi lassi.
130Indi al dì quarto, poi che al mar le vele

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Noto invitò, diero di piglio ai remi;
Lieti a rivalicar l’onde cerulee.
Lasciano Antilia, in dubbio mar natante
L’alta Ammeria, ed Agìa, dei Caniballi
135L’infame terra, e la silvestre Giane.
Ed ecco d’alte torri isole ornate,
Molte scoprono in mar; una fra queste
Folta di selve opache, risuonante
D’un fiume al corso, che nel vasto letto
140Fulgide arene d’oro al mar travolve.
Piace a questa drizzar le curve poppe,
Poichè invitanvi i boschi e l’onde pure.
Presto del verde suol messi al possesso
Salutan pria la terra ignota, e il Genio,
145E le Ninfe del loco, e te che d’auro
Con nitid’onde, o Fiume, al mar trascorri.
Quindi la dura Cerere, e il natio
Bacco spacciato sull’erboso lito,
Chi cerca uom ch’ivi sia, chi d’ôr l’arene.
150Pei rami ombrosi della selva a caso
Svolazzava d’augei schiera che pinta
In ceruleo le piume, e in rosso il rostro,
Giva secura pel natio boschetto.
Come una man di giovani la vide
155Per l’alta selva; palle orrende, e, imago
Del fulmine, lo schioppo impugnan, tuo
Ritrovato o Vulcan, ch’armi i Teutoni,
E agli uomini lo stral rechi di Giove.
Ed ecco ognun l’augel segna cui cogliere;
160Poi nitro, e zolfo, e cenere, di salcio
Calca nell’arma, cui favilla accostasi.
L’ignea forza costretta al foco subito
Accendesi, dilatasi, senz’obice
Spinge la palla inclusa, e questa stridula
165Fende l’aria: qua e la cadono esanimi

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Gli augei colpiti; il ciel di lampi infiammasi,
E il tuono è tal che poggi e colli concavi,
E percossi dal mar gli antri rintronano. —
Parte allor degli uccelli al bosco folto,
170Parte fugge atterrita agli ardui scogli.
Ed uno, o meraviglia! empie gli orecchi
Di terribili accenti, e a dir imprende:
Voi che del Sol violate i sacri augelli,
Esperii, or voi quello che il grande Apollo
175Vi canta, e di mia bocca io reco, udite:
Voi, benchè ignari, ai lungamente cerchi
Liti d’Ofiri, aura seconda addusse;
Ma soggettar le nuove terre, e questi
A lunga libertà popoli avvezzi,
180E cittadi fondarvi, e culto nuovo,
Potrete sol, dopo di terra e mare
Stenti infiniti, ed aspre guerre, e molti
Corpi sepolti nell’estrania terra.
Tornar, perse le navi, in patria pochi
185Potrete, e i socii rivarcato il mare
Altri non troveran; quì pur Ciclopi
Non mancheranno; vi trarrà discordia
All’ire, all’armi, e già s’appressa il giorno
In cui di morbo ignoto il corpo infetti,
190Per aiuto verrete a questa selva,
Finchè vi dolga il fallir vostro. Tacque,
E s’avvolse stridendo all’ombre in seno.
Abbrividir repente; impallidiro,
E il sangue lor fredda paura strinse.
195Allor, pregati i sacri augelli e i Numi,
Prima adorano il Sole, e della selva
Santa gli Dei custodi, e chieggon pace,
Di nuovo salutando Ofiri e il fiume.
Bruna il volto ed il crin vien dalla selva
200Nuova d’uomini intanto inerme turba,

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Nuda il petto, di fronde intorno cinta
Pacifiche, e le navi, immense moli,
L’armi lucenti, e le vesti ammirando,
Non ristà dal veder: scesi dal cielo
205Uomini, Numi, o Eroi, ne stima, e porge,
Qual chi adora, di preci a noi saluto.
Prima allo stesso Re, cui doni lieti
Di biade e d’auro per le rive colto,
E natie recan frutta e puro mele.
210Essi di nostre vesti, e doni molti
Presentati, alla gioia e al ber si danno;
Come se a mensa, e dei Celesti al cibo,
Felice a diventar l’uomo chiamato,
Beva nettare eterno in tazze dive.
215D’ambe parti così gli animi stretti
In secura amistà, s’unir le genti:
Gli stessi Re fra lor lieti sul lido
Stringon le destre, e l’alleanza insieme.
L’uno lieve cotone al fianco e al petto
220Porta, e verde smeraldo il lembo n’orna:
Bruno in volto; à la destra acuto dardo;
Tien la manca di drago irta una spoglia.
Veste guarnacca d’or l’altro, cui sotto
Splendono fulgid’arme; un elmo à in testa
225Di rame, cui dipinte ornan le piume.
Aureo cinge smaniglio al niveo collo,
E gli pende dal fianco il brando Ibero.
E già i popoli uniti, ospitalmente
Questi alle case e quelli all’alte navi,
230Passano in giochi e fra i bicchieri i giorni.
Una festa cadeva, ed annuo un rito
Al Sol vendicator nel bosco ombroso,
Già d’Esperia e d’Ofiri ogn’uom v’accorre.
Di valle curva in su le sponde erbose
235Qui accalcate le madri ed i mariti,

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Popolo, padri, vecchi, e giovanetti
Mesti assisteano colle membra infette,
Brutte per croste, e per tabe gemente.
Con ramuscello d’Iaco un Sacerdote
240D’onda pura li asperge in veste bianca.
Poi svena bianco un bove all’ara innante,
E col sangue di quel, posto ivi presso,
Ne cosparge un pastore: al Sol potente
Sciolgonsi gli inni armonïosi, e tutti
245Fan prova di svenar pecore e porci,
Le viscere arrostir, mangiar sull’erba.
Stupiron gli Europej del rito arcano,
E del contagio non pria visto unquanco.
Ma il Duce lor, gravi pensier volgendo,
250Quest’è il mal, seco disse — (o ciel ne scampa!) —
Che accennommi del Sol la profetessa.
Indi al rege stranier (già detti e lingua
Avean comune) a qual Dio spetti chiede,
La festa, e a che la tanta in quella valle
255D’infermi schiera miseranda, e all’ara
Perchè un pastor di bovin sangue intriso,
Cui: Fortissimo o tu di prodi Ispani
Duce, il re disse, è nostro rito offrire
Annuo a vindice Nume un sagrifizio:
260N’è l’origine antica, e gli avi a noi
Lo tramandar; pur se gli estranei casi
Udir ti giova, t’aprirò le prime
Cause del rito e della tabe infanda.
Forse che infino a voi d’Atlante venne,
265E dell’antica sua progenie il nome:
Noi pur da lui per lungo ordin venuti
Siamo. Ed oh un tempo popolo felice,
Caro agli Iddii, sin che devoti e grati
Ad essi gli avi fur! Ma poi che i Numi,
270Pel fasto dei nepoti, ebbersi a scherno;

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Da quel di quanta la miseria, e quante
Le sventure, ridir mal io potrei.
Scosse Atlantide allor — isola detta
Dall’antico suo re, — grande un tremuoto,
275E dall’onde sparì ch’ella solcava
Donna di terra e mar, con navi mille.
De’ quadrupedi allor perir per sempre,
E le torme, e le gregge; invan lo studio
Del reintegrarle più: l’ostia straniera
280Bagna l’altare di straniero sangue.
E cotal peste pur lurida invase
I nostri corpi allora, e niuno, o pochi
La scampar, che, adirati i Numi, Apollo,
Piomba dal cielo, e le città devasta.
285Quindi con nuovo rito a tanta festa
Gli avi principio diero, e come, or dico:
A questi fiumi Sifilo pastore,
Fama tal è, mille adduceva i bovi,
Mille pel re Alcitòo su questi paschi
290Le greggie, e Sirio gli assetati campi,
E i boschi ardeva, che ai pastor null’ombra
Davano più, ne d’aura alcun ristoro.
Ei pel gregge dolente, e d’ira acceso
Contro il sublime Sole il guardo ergendo:
295E Dio te, o Sole, e delle cose padre,
Sclama, noi dir? Noi, stolti, ergerti altari,
Scannar tori, ed offrirti il pingue farro?
Forse di noi, forse dei regj armenti
Punto ti cale? O non piuttosto invidia
300Ti punge? — Mille le giovenche nivee,
Pascon per me mill’agni; un Tauro solo
Tu, s’è pur vero, e in cielo ài solo un Capro,
E un Can magro, che guarda a tanto armento.
Folle! che non piuttosto un rege adoro,
305Cui tanti campi, e genti, e tanto vasti

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Servono i mari, e al Sol va innanzi, e ai Numi?
Egli l’aure seconde, ai verdi boschi
Ei darà dolce il rezzo, e fresco al gregge.
Disse, ned aspettò: sui monti l’are
310Erse ad Alcitoo rege, e culto diegli.
Dei coloni la turba e dei pastori
Lo segue, ed arde incensi, e il sangue versa
Dei tori, che arrostiti in brani fumano.
Ciò che veggendo il Re dall’alto soglio
315In fra i devoti popoli seduto,
Altero pel divin resogli onore,
Vieta che in terra alcun Nume s’adori,
Pena il suo sdegno; sè maggior di tutti
Grida, e solo del Ciel curar gli Dei. —
320Il Padre Sol, che tutto vede e lustra,
Vide anche questo; arse di sdegno; i rai
Contorse infausti, e mandò fosco il lume.
Tosto la madre Terra e i vasti mari
N’andar compresi, ond’arse in vampe l’etra.
325Quindi a quell’empio suol de’ mali ignoti
Una piena. — Chi primo il sangue sparso
Al Re porgeva, ed are al monte in cima,
Sifilo n’ave turpe scabbia in dosso.
Primo convulse membra, e notti insonni
330Ei s’ebbe, e il morbo da lui primo il nome,
Cui sifilide dir piacque ai coloni.
E già la peste rea le città tutte
Coglie e il Re stesso: indi a cercar d’America
Vanno la Ninfa nel Cartesio bosco.
335Cole America i boschi, e degli Dei
Dal profondo del bosco apre i responsi.
Chieggon del morbo la cagion, la cura;
Ed ella: Sprezzatori o voi del Sole,
Egli voi preme: ad uom non lice ai Numi
340Pareggiarsi; gli date il culto usato;

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Lo placate, nè l’ire oltre n’andranno.
Eterna ell’è, non revocabil mai,
La peste ch’ei vibrò; quai uom qui nasca
La proverà; lo Stige egli, e il severo
345Destin giurò. Se pur certo rimedio
Cercate, alla gran Giuno offrite bianca
Vitella, e negra vacca alla gran Terra.
L’una darà dal ciel felice un seme,
L’altra una selva dal seme felice.
350Ciò a salute. Disse, e l’antro e il bosco
Ne fur scossi, ed orror fu tutto intorno.
Obbedir; l’are antiche ergono al Sole;
Bianca vitella a Te, gran Giuno, e negra
Vacca svenano a Te, massima Terra.
355Dico a stupor — ma gli avi e i numi attesto —
L’arbor sacra che voi pel bosco tutto
Vedete, in questo suol prima non vista,
Prese tosto a gittar verdi le fronde,
E a invigorir pei campi in vasta selva.
360Tosto al vindice Sol nuov’annua festa
Indice il Sacerdote, e a sorte è tratto
Sifilo da immolar solo per tutti.
Già già le bende, e il sacro farro in pronto,
Di purpureo tingea sangue il coltello.
365Ma Giuno il fece salvo, e il mite Apollo,
Che meglio del tapin ostia un giovenco
Vollero, e il suol di ferin sangue intriso.
Dunque a memoria di quel fatto eterna
D’annua festa sacrar tal rito i padri.
370Tratto all’ara un pastor vittima vana;
Quel tuo delitto, o Sifilo, ricorda.
Tutta che vedi la turba tapina,
Tocca dal Dio, gli error sconta degli avi,
Cui con voti e con preci il Sacerdote
375Propizia i Numi, e il concitato Apollo.

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I maggior rami della pianta sacra
Portan seco mondati, ond’ànno un succo
D’alta virtù, che fuga il morbo infando. —
Traeano in tai parlari, ed altri il tempo
380Quelle genti diverse insiem commiste.
Le navi intanto che, mandate ai cari
Liti d’Europa, riedon d’oltremare,
Recan portenti: ovunque (o fato arcano!)
Egual peste occupar d’Europa il cielo,
385E le città senza rimedio afflitte.
Più forte anzi un rumor va per le navi,
Del mal medesmo esser la flotta, e molta
Gioventude da tabe i membri infetta.
Non obliar dai tristi augei predetto
390Che cerco fora a quella selva aiuto.
Tosto a le Ninfe e al Sol porgendo voti,
Tran dall’intatta selva, e dal più fitto
Cercano, i tronchi, e tazze medicate
Beon, qual v’è l’uso, e con tal succo al fine
395La rea peste cacciar: ch’anzi dei Numi
Tanto dono alla patria, e il sacro arbusto
Voglion si rechi, a veder mai se fughi
Egual peste ivi pur, nè il fato niega
Zeffiri amici, e destro Apollo spira.
400Voi prima aveste, o Iberi, il divo dono,
Stupiti al pronto aiuto; ai Galli or conta,
Ai Sciti ed al German, corre applaudito
Il Latin ciel l’Iàco, e tutta Europa.
Salve o da Numi seminata, illustre
405Pianta, bella di chiome e virtù nuove,
Speme dell’uom, del nuovo mondo onore!
Più beata, se pur sott’esto cielo
Gli Dei nata fra genti ad essi amiche,
E t’avesser voluto eterna selva.
445Ma tu, se qualche fama al nostro carme

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Dien le Muse, tu pure in queste parti
Cognita, e sino al ciel cantata andrai.
Se Te non Battro, e il suol ultimo Artòo,
Nè Meroe, e l’arso Ammon tra l’Afre arene;
450Ben il Lazio, e t’udran l’onde del verde
Benaco, e del labente Adige i molli
Recessi; e basterà che te del Tebro
Legga in riva, e talor t’accenni il BEMBO.

FINE.