Da quel di quanta la miseria, e quante
Le sventure, ridir mal io potrei.
Scosse Atlantide allor — isola detta
Dall’antico suo re, — grande un tremuoto, 275E dall’onde sparì ch’ella solcava
Donna di terra e mar, con navi mille.
De’ quadrupedi allor perir per sempre,
E le torme, e le gregge; invan lo studio
Del reintegrarle più: l’ostia straniera 280Bagna l’altare di straniero sangue.
E cotal peste pur lurida invase
I nostri corpi allora, e niuno, o pochi
La scampar, che, adirati i Numi, Apollo,
Piomba dal cielo, e le città devasta. 285Quindi con nuovo rito a tanta festa
Gli avi principio diero, e come, or dico:
A questi fiumi Sifilo pastore,
Fama tal è, mille adduceva i bovi,
Mille pel re Alcitòo su questi paschi 290Le greggie, e Sirio gli assetati campi,
E i boschi ardeva, che ai pastor null’ombra
Davano più, ne d’aura alcun ristoro.
Ei pel gregge dolente, e d’ira acceso
Contro il sublime Sole il guardo ergendo: 295E Dio te, o Sole, e delle cose padre,
Sclama, noi dir? Noi, stolti, ergerti altari,
Scannar tori, ed offrirti il pingue farro?
Forse di noi, forse dei regj armenti
Punto ti cale? O non piuttosto invidia 300Ti punge? — Mille le giovenche nivee,
Pascon per me mill’agni; un Tauro solo
Tu, s’è pur vero, e in cielo ài solo un Capro,
E un Can magro, che guarda a tanto armento.
Folle! che non piuttosto un rege adoro, 305Cui tanti campi, e genti, e tanto vasti