Nota

../Appendice - Varianti scelte della «Secchia Rapita»/Canto duodecimo ../Indice dei nomi propri IncludiIntestazione 19 dicembre 2020 75% Da definire

Appendice - Varianti scelte della «Secchia Rapita» - Canto duodecimo Indice dei nomi propri

[p. 349 modifica]

NOTA

[p. 351 modifica]È noto che la Secchia rapita fu composta dal Tassoni nel 1615 e che nel suo primo disegno non era quale è giunta sino a noi: doveva risultare sí di dodici canti, ma in essi era compresa una evocazione di demoni condotti a combattere in favore dei modenesi: difatti nel canto VIII, nella rassegna dei padovani, dove a proposito di Abano ora si legge:

Se v’era Pietro allor, co’ fieri carmi
Traeva i morti regni al suon dell’armi,

nella redazione primitiva del 1615 stava invece:

Quivi il gran mago Pier susurrò carmi
E trasse i morti regni al suon dell’armi;

e nella lettera del 16 gennaio 1616 al canonico Albertino Barisoni è l’affermazione esplicita che la fretta di condurre a termine il lavoro per le sollecitazioni di monsignor Querenghi e anche per la stampa che pareva dovesse essere imminente, fece sí che il poema nella prima redazione del 1615 fosse in dieci canti soltanto, anziché in dodici, riattaccandosi l’attuale dodicesimo canto direttamente col nono. Se non che diversi incidenti con gli stampatori (trattò nel ’16 per una edizione veneziana e per una padovana) e soprattutto le difficoltá opposte dai revisori ecclesiastici, fecero fallire quelle prime trattative, per modo che il Tassoni riprese l’opera sua e nel 16181 v’inserí quelli che ora sono i canti X e XI accomodandoli al resto del poema, mentre trattava nuovamente per la stampa, la quale, pur facendosi in Venezia, doveva [p. 352 modifica]figurare eseguita in Lione a istanza di Onorato Claretti e per cura di Alessio Balbani. In essa comparivano giá i due canti aggiunti e il poema aveva ormai assunta la sua forma generale quale gli fu poi conservata dall’autore. Non è il caso di ricordare qui gli accidenti in seguito ai quali le speranze del Tassoni furono anche una volta frustrate e la falsa edizione di Lione non vide mai la luce. Ma quello che non potè esser fatto nel 1619 ebbe finalmente il suo compimento tre anni dopo, quando uscì la prima edizione parigina del 1622, o, per essere piú esatti, quando vennero successivamente fuori le tre stampe del 1622 (due di Parigi e una contraffazione veneta) pubblicate sotto il falso nome di Androvinci Melisone2. Il poema per altro adombrò la Curia Romana e giá sulla metá del 1622 correva voce che la Secchia dovesse essere proibita o almeno sospesa: difatti il 6 agosto di quell’anno la Sacra Congregazione dell’Indice emanava il suo decreto di soppressione, e una settimana dopo, il 13 agosto, il cardinale Barberini ne dava annuncio a tutti quelli cui spettava curarne l’esecuzione, ordinando nello stesso tempo «di non pubblicare et stampare in modo alcuno tal soppressione, non giudicando questi illustrissimi miei Colleghi, per degni rispetti, ciò espediente». E, a lode del vero, il Tassoni non ne ebbe noie, almeno gravi; pare non ricevesse nemmeno comunicazione dei luoghi incriminati: ritoccò tuttavia qua e lá l’opera propria, qualche ottava aggiunse, qualche altra modificò, qualcuna anche soppresse; ed eccoci alla famosa edizione di Ronciglione [Roma] del 1624, seguita dal Barotti e dopo lui da tutti gli altri, compresi i moderni, sino all’edizione del Nascimbeni negli Scrittori nostri del Carabba e alla mia nei Classici del ridere del Formiggini.

Se non che l’edizione di Ronciglione è duplice. Il testo della Secchia, anche come era stato corretto ultimamente dal Tassoni, non soddisfaceva in tutto il Papa, il quale notò alcuni luoghi relativi a fatti o persone di Chiesa, che gli parvero irriverenti, e li volle mutati. «Nostro Signore — scriveva il Poeta al canonico Sassi il 25 settembre 1624 — ha voluto legger la Secchia, e ora vorrebbe che si mutassero alcune parole, come il piviale e il pastorale. Non so che faremo.» Ma quello che il Tassoni ha fatto, lo sappiamo noi. Per ingraziarsi il Papa e fare che il suo poema avesse libero [p. 353 modifica]corso, mostrò di obbedire, menando vanto per la degnazione somma che il Pontefice s’era compiaciuto di avere correggendo l’opera. «È favore particolare dell’opera — scriveva3 — che sia stata riveduta e corretta da un Papa. Io non so se ci sia memoria d’altro libro da centinaia d’anni in qua»; ma nel fatto giocò, col dovuto rispetto, il Papa prima, i critici poi; perché soltanto alcune copie ormai rarissime dell’edizione con la falsa data di Ronciglione portano il testo corretto come lo volle il Pontefice, tutte le altre invece conservarono il testo nella lezione che gli aveva dato l’autore. Cosí che capisco benissimo che la reverenza delle somme chiavi e gli argomenti persuasivi della Inquisizione abbiano consigliato nel 1744 il Barotti a considerare come autentica la edizione fatta secondo le intenzioni pontificie; ma noi, criticamente parlando, credo dobbiamo considerare autentica soltanto l’edizione fatta secondo le intenzioni dell’autore: tanto è vero questo che quando l’anno dopo, nel 1625, fu ristampata la Secchia a Venezia, il Tassoni volle che fosse riprodotto il testo quale l’aveva voluto lui e non come era piaciuto a Urbano VIII. Ma nemmeno l’edizione veneziana del 1625 può essere considerata come definitiva. È noto che su un esemplare di questa edizione il Tassoni aggiunse le note che uscirono poi col nome di Gaspare Salviani4; e che questa copia accomodata secondo le intenzioni ultime dell’autore è quella che servi di originale all’edizione veneta del 1630, ultima fatta lui vivo. È appunto questa edizione stampata a Venezia nel 1630 da Giacomo Scaglia, e soltanto questa, che si deve considerare definitiva e deve essere riprodotta da chiunque si accinga a dare una nuova edizione della Secchia, corretti soltanto i materiali errori di stampa, che non sono pochi, e ammodernata prudentemente l’ortografia e l’interpunzione. Questo e non altro5.

Ma il compianto Nascimbeni, che fu uno dei piú acuti e sagaci conoscitori di cose tassoniane, d’accordo con me che è erroneo porre a fondamento di un’edizione della Secchia rapita il [p. 354 modifica]testo del 1624, non crede nemmeno sia giusto riprodurre, come io sostengo, il testo del 1630. Egli in un primo momento affermò6 ddoversi prendere come base l’edizione parigina del 1622, ove secondo lui, non sono ancora introdotti quei cambiamenti che furono portati nella posteriore per non dispiacere al Papa e all’Inquisizione: tale edizione andrebbe rettificata introducendovi soltanto quelle variazioni della stampa del 1624 che non furono determinate da rispetti umani o religiosi, ma sono l’espressione di miglioramenti liberamente voluti dall’autore. In questo schiettamente non consento col Nascimbeni; innanzi tutto perché un testo cosí concepito della Secchia riuscirebbe eccessivamente soggettivo, poi perché, ad essere interamente coerenti alle premesse, si giungerebbe di necessitá a conseguenze cui, sono certo, si sarebbe ribellato egli pel primo. Difatti, messo il criterio che non è possibile adottare come fondamento del testo del poema l’edizione di Ronciglione o altra posteriore, perché troppi sono i mutamenti in essa introdotti o per volontá della Inquisizione, o per compiacere ad amici, o per non dispiacere a potenti, nemmeno l’edizione parigina potrebbe essere accolta per tale rispetto senza ragionevole e fondata diffidenza; poiché per avere il testo veramente genuino della Secchia, non turbato da preoccupazioni umane o divine, dovremmo risalire senz’altro alla redazione in dieci canti del 1615, quale fu mandata a Padova al canonico Barisoni, perché ne procurasse la stampa in Venezia. Quella, e nessun’altra posteriore, è la Secchia come uscí di getto in sei mesi di geniale lavoro dalla mente del poeta, senza riguardi a persone, a cose, a istituzioni. Ma è noto che subito, proprio sino dal principio del 1616, cominciarono le prime modificazioni inspirate da quei rispetti umani e religiosi denunciati per l’edizione del 1624, e che il poeta fin dal 12 marzo scriveva al Barisoni: «Quanto alla stampa del Poema, bisogna consultare bene quello che si ha da fare, acciò non diamo disgusto né incorriamo pericolo. Starò aspettando i luoghi segnati; e Monsignor [Querenghi] ed io vedremo se vi sará altro di pericoloso quanto alle genti descritte; ma dubito che quando saremo a mettere la falce nel grano, non resti il loglio e si levino le spiche». E il 22 aprile aggiungeva: «La prego ad appuntare con lui [col Pignoria] in materia della stampa i luoghi necessari da correggere e risolvere una delle due cose: cioè o di correggerne [p. 355 modifica]alcuni e gli altri in bianco; o di non correggerne alcuni e metterli tutti per cifra, dando poi la controcifra in penna al libraro, che ne dia copia a chi pare a lui». Ma giá il 16 dello stesso mese avvertiva di aver levate certe ottave di san Petronio e del Diavolo7, il 29 aprile scriveva dicendo che il Gualdi s’era doluto con Monsignor Querenghi che «la famiglia sua fosse stata nominata con titoli infami» e per contentarlo modificava l’ottava (VIII, 35) a lui relativa8); e il 15 maggio, dopo essersi raccomandato sulla scelta del revisore, perché «la rivedesse un galantuomo piuttosto che un frate»9, aggiungeva: «Ho osservate e mutate tutte le cose che potevano dispiacere alle persone vive». Credo inutile l’insistere: chiunque può leggere le Lettere del Tassoni e vedere altre numerose conferme alla mia affermazione. Ma, come ho avvertito addietro, le trattative del ’16 andarono fallite, per essere poi riallacciate l’anno seguente; e il Tassoni nel frattempo seguitava a mutare, qui «perché la persona sottintesa non ha voluto essere descritta per fautore di banditi ed assassini», lá «perché v’erano parole che discoprivano troppo la persona notata», o perché si «toccava alla scoperta un personaggio grande che ne poteva restar offeso»10, tanto che quando nel 1618 parve che finalmente l’affare si conchiudesse, il Poeta pensava di mandare una nuova «copia della Secchia corretta come ha da essere, essendosi mutati molti luoghi, parte per migliorarli e parte per non offendere alcuni interessati, che poi avrebbon fatta proibir l’opera, quando fosse stampata e potevano anche portar pregiudizio all’autore»11. [p. 356 modifica]

Stando cosí le cose, con qual diritto potremmo prendere come genuina l’edizione del 1622, quando sappiamo che, oltre le mutazioni introdotte per rispetti religiosi, molte volte anche il Tassoni correggeva per correggere, non solo per la sua incontentabilitá di artista, ma anche per il suo ingegno critico che trovava sempre da appuntare sulle cose degli altri e sulle proprie?12 E chi potrá mai sentirsi cosí sicuro di sé e del proprio giudizio da poter distinguere dai luoghi mutati per non offendere o dispiacere quelli cambiati per introdurre alcun miglioramento, o per compiacere qualche amico13, o per altra ragione, magari una bizza personale? come quando muta il verso ottavo della stanza 41 del canto XI mettendovi invece di Simone Tassi il marchese Sforza Pallavicino, perché «il primo per comparire in iscena avea promessi certi guanti d’ambra, che poi per essere cosa odorosa andarono in fumo. E veramente il luogo meritava d’essere occupato da un altro ingegno mirabile come quello del marchese Sforza Pallavicino. E l’altro che stimava piú due paia di guanti, che l’immortalitá, meritava d’esser levato da tappeto». E questa nota è di Gaspare Salviani, cioè di Alessandro Tassoni, e la correzione compare solo nell’edizione del 1630 e nelle successive sino al Barotti; poiché sino al 1622 si leggeva:

E ne scrisse anche a Monsignor Falconio
E allo Strozzi e al prior di Sant’Antonio;

in quella del 1624 mutò:

Ma sopra tutti al principe Borghese
E a Simon Tassi di Pavul marchese;

per dar luogo alla lezione definitiva del 1630:

Ed al non men di lor dotto e cortese
Sforza gentil Pallavicin marchese.

[p. 357 modifica]Le citazioni potrebbero continuare; ma le fatte credo siano piú che sufficienti; tanto è vero che l’amico Nascimbeni, in un secondo momento, quando curò l’edizione della Secchia per il Carabba, la disse condotta «secondo l’edizione veneta del 1630, integrata coi manoscritti e le stampe anteriori». Dopo quanto sono venuto sin qui esponendo, non c’è, credo, bisogno che insista sugli inconvenienti cui dá luogo l’integrazione tentata dal Nascimbeni; l’elemento soggettivo vi prende necessariamente il sopravvento e invece della Secchia del Tassoni avremo la Secchia dell’Editore. Piuttosto poiché le successive rielaborazioni del testo fatte dall’Autore, e soprattutto le indicazioni delle persone sono utilissime ad essere conosciute per meglio valutare e intendere il poema, ho creduto conveniente aggiungere una scelta delle varietá di lezioni tratte dai manoscritti e dalle stampe anteriori a quelle del 1630 e un indice dei nomi propri che s’incontrano nella Secchia, nelle Dichiarazioni del Salviani e nelle Varianti.

Nulla ho da osservare a proposito del primo canto dell’Oceano: se non che fu pubblicato sino dal 1622 in fine alla prima edizione della Secchia e riprodotto in quasi tutte le edizioni successive; e che rappresenta un saggio non disprezzabile di quanto avrebbe potuto fare il Tassoni, se si fosse applicato seriamente alla poesia epica. Per le Rime avverto che v’ho comprese tutte quelle — serie (I-XX), satiriche e burlesche (XXI-XLIV) — che sono certamente del Tassoni (I-XXVIII) o sono con buon fondamento a lui attribuite (XXIX-XLIV); ma non sono certamente tutte quelle che egli scrisse; molte sono andate senza dubbio smarrite, o non sono ancora state rintracciate; di molte altre, specialmente satiriche e burlesche, credo assai difficile, per non dire impossibile, poter determinare in modo sicuro la paternitá. Si veda quanto su l’argomento scrissero il Casini14 e il Nascimbeni15.

G. R.

  1. Cominciò a lavorarvi nel novembre 1617; cfr. Le lettere di A. Tassoni a cura di Giorgio Rossi, Bologna, Romaguoli-Dall’Acqua, 1910, vol. II, p. 81.
  2. Cfr. Giorgio Rossi, Saggio di una bibliografia ragionata delle opere di A. Tassoni, Bologna, Zanichelli, 1908, pp. 53-60.
  3. Lettere cit., vol. I, p. 304. Al can. Sassi, 26 ott. 1624.
  4. Cfr. Giorgio Rossi, Gaspare Salviani e le sue «Dichiarazioni» a «La Secchia rapita», in «Studi e ricerche tassoniane», Bologna, Zanichelli, 1904, pagine 223-254.
  5. Non sará fuori di luogo l’avvertire qui in nota che l’ortografia, anche negli autografi tassoniani, è oltremodo oscillante, e che non sempre uniformi sono le istruzioni date dal Tassoni a chi doveva sovraintendere alla stampa delle sue opere.
  6. Una nuova edizione della «Secchia rapita», in Il resto del Carlino, del 24 gennaio 1913.
  7. Lettere cit., vol. II, pp, 34-35.
  8. Lettere cit, vol. II, pp. 37-41.
  9. Lettere cit, vol. II, p. 42. Su questo punto torna a parecchie riprese, per esempio, nella lettera del 25 giugno: «Prego V. S. solamente a procurare che cotesti revisori trattino il poema da pentola e non da secchia, cioè che non ne levino il condito, lasciando l’acqua schietta. Né si meravigli V. S., ch’io dubiti, perché conosco la superstiziosa pervicacia dei frati moderni, e l’avversione che hanno delle cose allegre e amiche della natura umana, e predominati dalla malignitá di Saturno» (vol. II, p. 51); e il 24 settembre: «Vorrebbe essere un uomo dotto, allegro e senza simulazione, e che avesse qualche gusto di poesia..... È possibile che di tanti letterati che sono in Padova non ne sia alcuno galantuomo? Ogni dí si riformano gl’indici, ogni dí si fanno nuove proibizioni, ogni dí va mancando il numero dei cattolici; qualche abbaglio bisogna che sia in questo negozio» (vol. II, p. 57). Cfr. anche sullo stesso argomento le lettere al Barisoni del 9 e 30 luglio e del 5 agosto 1616 (vol. II, pp. 52-56).
  10. Lettere cit, vol. II, p. 75: 10 giugno 1617.
  11. Lettere cit., vol. II, p. 85: 18 ottobre 1618.
  12. Il 25 dicembre 1615 scriveva al Barisoni: «Se vi troverá cosa che non le piaccia, la prego ad avvisarmela, che subito la muterò, perché io non son punto tenace di opinione» (vol. II, p. 10); e piú tardi, il 23 gennaio 1616, mandando all’amico un lungo elenco di luoghi mutati, aggiungeva: «Né si meravigli V. S. di tante mutazioni, ché le cose mie non hanno mai quiete sicura» (vol. II, p. 22).
  13. Il 10 aprile 1616 scriveva al Barisoni: «Nel IV canto ho fatto varie mutazioni per dar gusto a un amico» (vol. II, p. 30).
  14. Rime di A. Tassoni raccolte su i codici e le stampe da Tommaso Casini, Bologna, Romagnoli, 1890 [Scelta di curiositá letterarie inedite o rare, Dispensa CLXXIV].
  15. Le poesie burlesche del Tassoni nel Giornale storico della Letteratura italiana, vol. LXIII, 1914, pp. 306 sgg.; A. Tassoni, Opere minori, a cura di G. Nascimbeni e G. Rossi, Roma, Formiggini, 1926, vol. I, §§ 1 e 2 [Classici del ridere, vol. 62].