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alcuni e gli altri in bianco; o di non correggerne alcuni e metterli tutti per cifra, dando poi la controcifra in penna al libraro, che ne dia copia a chi pare a lui». Ma giá il 16 dello stesso mese avvertiva di aver levate certe ottave di san Petronio e del Diavolo1, il 29 aprile scriveva dicendo che il Gualdi s’era doluto con Monsignor Querenghi che «la famiglia sua fosse stata nominata con titoli infami» e per contentarlo modificava l’ottava (VIII, 35) a lui relativa2); e il 15 maggio, dopo essersi raccomandato sulla scelta del revisore, perché «la rivedesse un galantuomo piuttosto che un frate»3, aggiungeva: «Ho osservate e mutate tutte le cose che potevano dispiacere alle persone vive». Credo inutile l’insistere: chiunque può leggere le Lettere del Tassoni e vedere altre numerose conferme alla mia affermazione. Ma, come ho avvertito addietro, le trattative del ’16 andarono fallite, per essere poi riallacciate l’anno seguente; e il Tassoni nel frattempo seguitava a mutare, qui «perché la persona sottintesa non ha voluto essere descritta per fautore di banditi ed assassini», lá «perché v’erano parole che discoprivano troppo la persona notata», o perché si «toccava alla scoperta un personaggio grande che ne poteva restar offeso»4, tanto che quando nel 1618 parve che finalmente l’affare si conchiudesse, il Poeta pensava di mandare una nuova «copia della Secchia corretta come ha da essere, essendosi mutati molti luoghi, parte per migliorarli e parte per non offendere alcuni interessati, che poi avrebbon fatta proibir l’opera, quando fosse stampata e potevano anche portar pregiudizio all’autore»5.

  1. Lettere cit., vol. II, pp, 34-35.
  2. Lettere cit, vol. II, pp. 37-41.
  3. Lettere cit, vol. II, p. 42. Su questo punto torna a parecchie riprese, per esempio, nella lettera del 25 giugno: «Prego V. S. solamente a procurare che cotesti revisori trattino il poema da pentola e non da secchia, cioè che non ne levino il condito, lasciando l’acqua schietta. Né si meravigli V. S., ch’io dubiti, perché conosco la superstiziosa pervicacia dei frati moderni, e l’avversione che hanno delle cose allegre e amiche della natura umana, e predominati dalla malignitá di Saturno» (vol. II, p. 51); e il 24 settembre: «Vorrebbe essere un uomo dotto, allegro e senza simulazione, e che avesse qualche gusto di poesia..... È possibile che di tanti letterati che sono in Padova non ne sia alcuno galantuomo? Ogni dí si riformano gl’indici, ogni dí si fanno nuove proibizioni, ogni dí va mancando il numero dei cattolici; qualche abbaglio bisogna che sia in questo negozio» (vol. II, p. 57). Cfr. anche sullo stesso argomento le lettere al Barisoni del 9 e 30 luglio e del 5 agosto 1616 (vol. II, pp. 52-56).
  4. Lettere cit, vol. II, p. 75: 10 giugno 1617.
  5. Lettere cit., vol. II, p. 85: 18 ottobre 1618.