La scuola di ballo/Atto III

Atto III

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Atto II Atto IV

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Don Fabrizio e Felicita.

Fabrizio. Ma perchè mai cotanta ritrosia?

Siate più franca, siate spiritosa,
Felicita. Che pretende da me vossignoria?
Fabrizio. Da voi cosa pretendo? è curiosa!
Fermata meco per ballar non siete?
Felicita. Chi v’ha detto, signor, sì fatta cosa?
Fabrizio. Non saperlo mostrate, o nol sapete?
Ecco qui la scrittura, ed ho pagato
Il danaro di già, come vedete.
Felicita. Povero galantuom, siete gabbato.
Fabrizio. Perchè?
Felicita.   Perchè davver, sull’onor mio,
A ballare fin or non ho imparato.

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Fabrizio. Voi chi siete?

Felicita.   Felicita son io.
Fabrizio. Quella appunto, a cui fatta ho la scrittura.
Eh, vi tratterrà qui qualche desio.
Felicita. Questa è la verità sincera e pura:
Non so ballar, non me n’importa un fico,
Anzi ne son contraria per natura.
Se venissi con voi, chiaro vel dico,
Fatevi conto di vedere un ceppo,
Buono soltanto da recare intrico.
Bellissima davvero! Il mondo è zeppo
Di ballerini, e intorno a me venite?
Nè anche se foste nato sur un greppo.
Fabrizio. Resto stordito a quello che mi dite;
Se il maestro di ballo m’ha ingannato,
O stracciamo la scritta, o facciam lite,
E mi renda il danaro anticipato;
Ma ancor io credo che scherziate meco,
Per piacer di vedermi sconsolato.
Felicita. Voi mi vedrete, se non siete cieco;
Peggio vedrete di quel che vi ho detto.
Fabrizio. Perchè dunque il maestro vi tien seco?
Felicita. Abborrisco un mestiere maledetto;
Abborrisco il ballar, come il demonio;
Ed ei vuole ch’io balli a mio dispetto.
Perchè fa di scolare un mercimonio;
E per aver di sue fatiche il prezzo,
Non gli preme ingannar Tizio o Sempronio.
Fabrizio. E un buon sensale, a contrattare avvezzo
Musici e ballerini, assicurato
Mi ha, che voi siete un mobile di prezzo.
Felicita. Eccomi qui, signore mio garbato;
Quel mobile ch’io son, voi lo vedete.
Pare a voi ch’egli merti esser sprezzato.1

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Levatemi dal ballo, se potete;

Per il resto son pronta onestamente.
Tutto fare per voi quel che volete.
Fabrizio. Dite la verità sinceramente:
Abborrite il teatro in generale,
O vi spiace il ballar singolarmente?
Felicita. Spiacemi quella cosa ch’io fo male;
Se sapessi ballare, ballerei;
Che anzi i’ son del teatro parziale.
Fabrizio. Voi non siete discara agli occhi miei;
E se sperassi di esser bene accolto,
Quel ch’ho nel cuore vi confiderei.
Felicita. Sentir adesso in verità mi aspetto,
Che piantar mi vogliate la carota,
Di arder per me d’un improvviso affetto.
Non mi crediate cotanto idiota;
Se vi piaccion le celie e i ghiribizzi,
Ho anch’io la lingua che al bisogno arruota,
E non occorre che nessun m’attizzi:
Noi faremo a giuocare all’altalena,
A chi sa meglio immaginar bischizzi.
Fabrizio. Ma perchè mai v’inquietate? Appena
Principiato ho a parlare, immantinente
D’esser beffata vi mettete in pena;
Di parlarvi d’amor non ebbi in mente.
Per un’altra ragion voi mi piacete.
Felicita. Come sarebbe a dir? (in collera)
Fabrizio.   Placidamente. (acchetandola)
Impresario son io, come sapete,
D’opera musical; ma una commedia
Recitare in Pistoia ancor vedrete.
E se il mestiere del ballar v’attedia,
Se vi aggrada venir per recitante,
Certo non morirete dall’inedia.
Instruir vi farò da un commediante,

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E lo spirito vostro e l’esercizio

Vi farà prestamente andar innante.
Felicita. Per dir la verità, codesto uffizio
Non mi dispiacerebbe; ma ho timore
Di dovermi pentir del sagrifizio.
So che i comici son gente d’onore,
So che fanno un mestier che al mondo è grato,
So che vivon taluni con splendore,
Ma dopo che il mestier s’è rivoltato,
Dopo che un nuovo stil fu posto in scena,
V’è chi si lagna del mestier cangiato.
Ora un garzon sa compitare appena
Studia una parte, ed esaltar si sente,
E l’applaude l’udienza a voce piena,
Benchè dell’arte non ne sa niente.
Se lo prende un poeta a confettare2,
Presto mettesi a far l’impertinente.
E chi onor si faria, non sel può fare
Per causa del poeta parziale,
Che solo chi gli par vuol far spiccare.
Credere si potrebbe un uom venale,
Che distinguesse chi regala più;
Ma i comici non cascan di tal male.
La comica il mio genio ognora fu;
Reciterò, ma solo all’improvviso,
Dove il merito spicca, e la virtù.
Fabrizio. La medesma ragion anch’io ravviso.
Sono i geni però confusi e vari,
E il giudizio fra lor pende indeciso.
Sono i comici buoni al mondo rari,
Aiutan molto le opere studiate;
Ma il mal si è, che costano danari.
Se ai comici venisser regalate,

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Quantunque non facessero fortuna,

Alle stelle da lor sarian portate.
Ma noi qui stiamo a bastonar la luna.
Se di venir vi risolvete, andiamo.
Io non ci avrò difficoltade alcuna.
Felicita. Al maestro è dover che lo diciamo.
Fabrizio. Sembravi ch’egli merti un complimento?
Dispensare per or ce ne possiamo.
Glielo diremo poi. Già i scudi cento
Lasciogli nelle man per non piatire,
E a conto andran del vostro assegnamento.
Felicita. Anche per questo ne dovrei patire?
Veggo la vostra offerta interessata;
Non me ne fido, e non ci vo’ venire. (via)
Fabrizio. Il maestro mariuol me l’ha accoccata,
E quel tristo sensal....

SCENA II.

Ridolfo e detto.

Ridolfo.   Di chi parlate?

Fabrizio. Di voi, e della vostra bricconata.
Ridolfo. Ehi, de’ ghangheri fuori non andate.
A’ monelli si dicon tai rampogne:
Spirito di paura che impazzate.
Fabrizio. Uno che mercanzia fa di menzogne,
Lo stimo tanto, quanto un animale,
Ch’è destinato a scaricar le fogne.
Ridolfo. Non ho voglia stamane di dir male:
Cosa ho fatt’io, che in collera vi mette?
Fabrizio. Una truffa patente e criminale.
La ballerina che mi si promette.
Non sa, non vuol ballar, non vuol venire;
Ed un simile inganno si commette?

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Ridolfo. Se non rido di cor, possa morire.

Parlaste con Felicita?
Fabrizio.   Parlai,
E mi ha fatto alla prima intirizzire:
Disse che il ballo non apprese mai.
Che sarà come un ceppo; orsù alle corte,
I cento scudi che gli anticipai.
Ridolfo. Oh quanto mai son le fanciulle accorte!
Quanto gli uomini sono (tali e quali)
Baggiani in vita, e babbuassi in morte!
Felicita ha gli umori matricali:
Quando sente propor la dipartenza,
Le vengono d’intorno cento mali.
Vi ha burlato, signore, in coscienza;
Ella vi ha detto non saper ballare,
Ed il ballo lo sa per eccellenza:
Se la vedrete, vi farà incantare.
Ha un piede svelto come una cervetta,
Ed ha una gamba che fa innamorare.
Ha il ginocchio disteso; e non difetta
Nè di ciccia soverchia, nè di poca,
Mostrando in ciò proporzion perfetta.
Il collo non ha lungo come un’oca;
Ma ritondetto, e se vedeste come
L’occhio e la testa, quando balla, giuoca.
Sono vezzose in lei fino le chiome;
Vi assicuro non passano due anni,
Che risuona per tutto il di lei nome.
E i Francesi, e i Spagnuoli, ed i Brittanni
Per averla daran mille zecchini,
E tutto il mondo metterà in affanni.
E voi, che si può dir per sei quattrini
L’avete avuta, sentirete il chiasso
Che ne faranno i vostri cittadini.
Io vi consiglio non muovere un passo.

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Se il maestro lo sa che vi dolete,

Ve la ritoglie, e poi vi manda a spasso.
Conducetela vosco, se volete;
Quando il lungo Arno le sarà lontano,
Ridere e saltellar voi la vedrete.
Ma fin che state qui, sperate invano
Ch’ella si mova; è femmina cocciuta,
Come suol dirsi in termine romano.
Fabrizio. Dunque cosa ho da far?
Ridolfo.   Senza disputa.
Che Felicita salga nel calesse,
E menatela via così alla muta.
Fabrizio. Sì, lo farò. Son più contento adesso,
Che mi avete di tanto assicurato.
Perdono in lei l’ostinazion del sesso. (via)
Ridolfo. Povero galantuom, sarà imbrogliato.
Ma è più imbrogliato maestro Rigadone,
E alfine gliel’ha data a buon mercato.
Oggi le brave hanno pretensione
Di trecento zecchini, o quattrocento,
E metton tutto il mondo in confusione.
Da ridere mi vien, qualora sento
All’impresario dir la ballerina:
Vo’ la carrozza, vo’ l’appartamento.
Non si ricorda più la poverina,
Di quando andava senza scarpe in piede
Dal maestro di ballo ogni mattina;
E perchè un poco di danar si vede,
E le fan le moine i spasimanti,
Cambiata aver condizion si crede.
Ecco madama. Oh, ha pur dei grilli tanti
Questa ancora nel capo. Ella vorria
Veder per essa delirar gli amanti.

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SCENA III.

Madama Sciormand e detto.

Madama. Voi siete tratto tratto in casa mia,

E mai che vi degnaste per creanza
Dirmi: buongiorno di vossignoria.
Dove imparaste così fatta usanza?
Ridolfo. Quando vi vedo, faccio il mio dovere.
Madama. Mi si viene a trovar alla mia stanza.
Ridolfo. Posso in nulla servirvi?
Madama.   Io vo’ sapere
Tutti gli affari del signor fratello;
E le scritture le vo’ anch’io vedere.
Se prende uno scolar, voglio di quello
Essere intesa, e se a ballar lo manda,
Vo’ veder, se il contratto è buono e bello.
È ver che l’uomo è quello che comanda;
Ma nelle cose sue non può fallire,
Se consiglio alla femmina domanda.
Ridolfo. Veramente per detto intesi dire,
Che consiglio di donna allora è buono,
Quando senza pensar lo lascia uscire.
Madama. Queste contro il mio sesso ingiurie sono;
La donna è creatura più perfetta;
E il ciel le diè di sottigliezza il dono.
Io poi, per dirla, sono una donnetta
Ch’oltre l’accorta femminil natura,
I miglior studi d’apparar si alletta,
So che in numero, in peso ed in misura
Tutte consiston le create cose,
So che il male finisce, e il ben non dura;
So degli effetti le cagioni ascose;
So ch’ogni dolce suol produr l’amaro,
E senza spine non si trovan rose.

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Ma quel che di saper mi saria caro.

Ancor non so; vorrei saper la gioia
Di due cori che s’amano del paro.
Questo viver così mi viene a noia.
Da un amante sospira il genio mio
Qualche onesto piacer, prima ch’io moia.
Oltre il sapere, ho un po’ di dote anch’io;
Allo sposo darei, se non sdegnasse,
Trecento scudi che lasciommi un zio.
Uomo non crederei che mi sprezzasse,
Ma non lice a donzella andar in traccia;
Qualchedun ci vorria che mel trovasse.
Ridolfo. Se non credessi d’acquistar la taccia
Di quel mestier che si disprezza, e giova,
Vorrei andar per amor vostro a caccia.
Madama. Su via, Ridolfo, fatene la pruova.
I fatti nostri chi li ha da sapere?
Donna che taccia al mondo non si trova?
Ridolfo. Ditemi: chi vorreste?
Madama.   Un cavaliere.
Ridolfo. E se fosse un mercante?
Madama.   E perchè no?
Ridolfo. E se fosse per caso un botteghiere?
Madama. In ogni guisa maritarmi io vo’.
Basta sia ricco, e mi mantenga bene.
Ridolfo. E se fosse vecchietto?
Madama.   Oh questo no.
Ridolfo. Qualche cosa di mal soffrir conviene.
Madama. Soffrirò tutto, fuor della vecchiezza.
Ridolfo. Se uno spiantato per le man vi viene?
Madama. Basta ch’abbia buon garbo e gentilezza;
Il ciel provvederà.
Ridolfo.   Signora mia.
Vorrei dir, per ischerzo, una sciocchezza.
Se un marito ella vuol qualunque sia,

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Di questo galantuom suo servitore

Le piacerebbe la fisonomia?
Madama. Se potessi sperar nel vostro amore.
Ridolfo. Circa l’amor non vi sarà che dire,
Ma la ricchezza mia sta nel buon core.
Madama. Tutti i beni del mondo han da finire:
Dice il proverbio, chi è contento gode:
Nascono le amarezze dal desire.
Virtuosa umiltà merita lode;
Chi non abbonda di ricchezze in casa,
Timor non ha d’insidiosa frode.
Chi le delizie di Cupido annasa,
D’altro vano piacer l’odor non fiuta;
Il nettare nel seno amor travasa.
Ridolfo, questo cor non vi rifiuta;
Non vi affanni il pensier dell’avvenire;
Cuor contento, suol dirsi, il ciel l’aiuta.
Ridolfo. Corpo di bacco! i’ non mi vo’ pentire:
Ecco la mano.
Madama.   Prendovi in parola;
A mio fratello non lo state a dire.
Ridolfo. Rigadone, che badi alla sua scuola:
Madama non dipende dal fratello;
Vuol maritarsi, povera figliuola.
Donna di garbo, donna di cervello.
Non le preme un signor ricco sfondato.
Vuol di Ridolfo il suo coruccio bello. (via)
Madama. Finalmente un amante ho ritrovato;
E posso dir che ritrovai marito,
Se di buon cuore la parola ha dato.
È vero che il meschino è rifinito;
Ma di dote e corredo io non abbondo,
E niente con niente fa il partito.
Nè per questa ragion io mi confondo;
Mio fratello mi stima, e mi vuol bene;

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E alla sua mensa non ci manca un fondo.

Chi è questa vecchia, che al baston s’attiene?
Ha una giovane seco. Facilmente
Qualche nuova scolara a noi sen viene.

SCENA IV.

Lucrezia, Rosina e detta.

Lucrezia. Serva sua, signora3.

Rosina.   Riverente.
Madama. Vi saluto, madonna; addio, ragazza.
Lucrezia. (Che saluto è cotesto impertinente). (a Rosina)
Rosina. (Sarà qualche scolara). (a Lucrezia)
Lucrezia.   (O qualche pazza).
(a Rosina)
Madama. Chiedete forse il mio signor fratello?
Rosina. (Suora ell’è del maestro). (a Lucrezia)
Lucrezia.   (Che pupazza!) (da sè)
Rosina. Sì signora, cerchiamo appunto quello.
Madama. Siete voi ballerina?
Rosina.   Principiante.
Madama. Imparerete, se avrete cervello.
Lucrezia. (Oh, mi vien la saetta). (da sè)
Rosina.   Imparan tante.
Imparerò io pure. (con ardire)
Madama.   Alla favella
Sembrami che voi siate un po’ ignorante.
Lucrezia. (Che ti possa venire la rovella).
Rosina. Perchè, signora mia?
Madama.   Perchè non parla
Con sì fatta arroganza una zitella.

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Lucrezia. Presto, Rosina, vanne ad inchinarla;

Favorisca la mano, gentildonna, (ironicamente)
Che la figliuola mia verrà a baciarla.
Madama. Chi vi pensate corbellar, madonna?
In questa casa sono io signora.
Non soffro insulti da un’ignobil donna:
Ogni scolara mi rispetta e onora;
E chi la grazia del maestro brama,
La mia protezion soltanto implora.
Se farete così, meschina e grama
Vostra figlia sarà.
Rosina.   Signora mia...
Madama. Che signora, signora? io son madama. (via)
Lucrezia. Che ti accarezzi il fistolo. Andiam via.
Rosina. Sì andiamo, a costo di precipitarmi.
Non la posso soffrir quell’albagia.
Lucrezia. Aspetta. Col maestro i’ vo’ sfogarmi.
S’egli le parti tien della sorella,
Non ci penso una spilla a licenziarmi. (via)
Rosina. Maledetta superbia! Oh, questa è bella!
Nel cielo delle donne è persuasa
D’esser madama la Diana stella!

SCENA V.

Carlino e detta.

Carlino. Oh Rosina!

Rosina.   Oh Carlino!
Carlino.   In questa casa?
Rosina. Mia madre col maestro mi ha accordata;
Ma or di restarvi mi son dissuasa.
Carlino. Come! lo fai per me, Rosina ingrata?
Sai che ti voglio bene, ed or che vedi
Ch’io son qui teco, ti sei disgustata?

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Rosina. Ci starei volentier, più che non credi;

Ma del maestro alla sorella ardita
Io non consento di gettarmi ai piedi.
Carlino. Lasciarla dir, non le badar, mia vita:
Entra per poco in questa doglia4 amara,
Che presto forse troverem l’uscita,
Se il cielo una fortuna mi prepara.
Se al servizio mi chiama una corona,
Meco verrà la mia Rosina cara.
Rosina. Ma per teco ballar sarò poi buona?
Carlino. Quando ci sarò io, non dubitare.
Di quel poco ch’avrò, sarai padrona.
Rosina. Il mio poter non lascerò di fare,
Per riuscir meglio, se non bene bene.
Carlino. Ma sopra tutto tu mi devi amare.
Rosina. Vattene tosto, che la mamma viene:
Con ballerini non vuol ch’io favelli.
Carlino. Io so il perchè. Perchè il regal non viene.
Ma poscia i ballerini sono quelli,
Che le compagne portano alle stelle;
Io farò tutto per quegli occhi belli. (via)
Rosina. Non spunta ancora dalla bianca pelle
Di Carlino la barba; e so che è bravo,
E da lui posso procacciar covelle.

SCENA VI.

Lucrezia e detta.

Lucrezia. Della sorella il maestruccio è schiavo:

Vuol che alla principessa ognun s’inchini.
Andiamo, che lo stomaco m’aggravo.
Rosina. Oh mamma mia, non abbiam quattrini;5

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Statevi zitta, siate benedetta:

Finalmente non storpiano gli inchini.
Lasciate che a ballare mi rimetta,
Tanto ch’io possa escir la prima volta;
Se madama vuol dir, non le diam retta.
Cozzar coi muriccioli, è cosa stolta:
Facciam nostro interesse, mamma cara,
E a me lasciate dimenar la polta.
Lucrezia. La tavola ho veduto si prepara:
Andiam dunque cogli altri in compagnia.
Oh, la necessità gran cose impara. (via)
Rosina. Il motivo non sa la madre mia,
Che mi ha fatto restar. Son giovinetta,
Il gran mondo non so che cosa sia;
Ma quando occorre, sono anch’io furbetta. (via)

Fine dell’Atto Terzo.


Note

  1. Così il testo, probabilmente errato, dell’ed. Zatta.
  2. Nell’ed. Zatta questo verso è chiuso fra parentesi.
  3. Così nell’ed. Zatta.
  4. Così l’ed. Zatta. Forse è da correggere soglia.
  5. Così l’ed. Zatta.