Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Monsieur Rigadon, Giuseppina, Rosalba, Felicita, Filippino, Carlino, altri ballerini e ballerine: tutti a sedere, fuorchè Rigadon. Mentre si vedono questi due in azione, Felicita imparando a ballare il minuetto, e Rigadon insegnandole col suo violino1.

Rigadon. Alto con quella testa: il petto in fuori:

Quelle punte voltate un poco più:
Quei ginocchi ogni dì si fan peggiori.
E volete ballare il padedù?
Ballare il malanno che vi colga;2
Quella testa, vi dico, alzate in sù.

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E non è giusto che di voi mi dolga?

Son tre anni, che sudo e mi affatico,
E non v’è dubbio, che un danar ricolga.
Ve l’ho detto più volte, e vel ridico:
Felicita, al mestier voi non badate;
E mi servite solo per intrico.
Felicita. Signor maestro, non vi riscaldate;
Se non faccio per voi, me n’anderò,
Ch’io non voglio soffrir queste seccate.
Rigadon. Sì, gioja mia, ve n’andereste, il so, (/)
Dopo che per tre anni v’ho insegnato;
La mia scrittura mantenere io vo’;
Voglio de’ miei sudori esser pagato;
Vo’ che andate3 in teatro, o male o bene;
E dovrete ballar, se avrete fiato.
Felicita. Oh in questo poi da ridere mi viene.
In teatro non vo, vi parlo chiaro.
Nè men se mi strascinan le catene.
Se disposta non son, se non imparo,
Non vo’ farmi burlar pubblicamente
Per compiacer ad un maestro avaro.
Rigadon. Fate il vostro dovere, impertinente;
O farò contro voi qualche ricorso,
E dovrete ballar forzatamente.
Felicita. Terminiamo, signor, questo discorso.
Ballerò, se vorrò. Se non vi piace,
Andate a farvi pettinar da un orso.
Rigadon. Così si parla, petulante audace?
(Ma questo è l’uso delle mie scolare,
E mi conviene sopportarlo in pace.
Oggi siam tanti, che chi vuol mangiare.
Navigare convien con la tempesta).
Filippino.

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Filippino.   Signor.

Rigadon.   Vieni a ballare.
Filippino. Ho un dolore in un piè, che mi molesta.
Rigadon. Rosalba, venga a far le parti sue.
Rosalba. Questa mane, signor, mi duol la testa.
Rigadon. Che la testa vi caschi a tutti due.
Si pensa solo a far l’amor, bricconi;
Ed a ballar non ci si pensa piue.
E i maestri han da star come talponi?
E han da perdere il tempo inutilmente?
Queste son proprio disperazioni.
Carlino.
Carlino.   Eccomi qui.
Rigadon.   Tu più valente
Mostrati di costoro. Buon ragazzo.
Vieni alla lezion immantinente.
Carlino. Con licenza, signor. (per partire)
Rigadon.   Non fate il pazzo.
Carlino. Dei calzon mi si è rotta la cintura:
Vado, e ritornerò. (via)
Rigadon.   Se non impazzo,
È un miracolo certo. Ognun procura
Di farmi disperar sera e mattina,
E mi voglion cacciare in sepoltura.
Hanno il diavolo in corpo. Giuseppina.
Giuseppina. Signor. (s’alza)
Rigadon.   Venite qui. Facciam qualcosa.
Non mi fare arrabbiar; siate bonina.
So che siete per me la più amorosa.
Che mi volete bene, ed io prometto
Rendervi nel mestier la più famosa.
Giuseppina. Grata vi son del parziale affetto.
Caro maestro mio, voi siete il solo
Mio dolce amor. (Sel crede il poveretto).
Rigadon. Sì, ne sono sicuro, e mi consolo

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Quando parlo con voi, quando vi vedo,

Che propriamente mi andate a fagiuolo.
Il conte Anselmo che vien qui, non credo
Che altro esiga da voi, che buona ciera,
E per questo trattarlo io vi concedo.
È vero che alla cena di iersera
Vi parlò nell’orecchio eternamente,
E non mi piacque quella sua maniera.
Ma pensai ch’egli spende, e civilmente
Soffrir si può da un uomo generoso
Qualche scherzo giocoso indifferente.
Io non sono perciò di lui geloso;
Coltivatelo pur; ma non vorrei,
Che mi faceste perdere il riposo.
Giuseppina. Oh caro maestro mio, so i dover miei;
E se un re mi volesse incoronare,
La corona per voi rinunzierei.
Ma son povera figlia, e col ballare
Non mi lusingo di una gran fortuna,
E voi pochino mi potete dare.
In casa vostra spesso si digiuna;
Il Conte manda sempre qualcosetta,
Ed io lo fo senza malizia alcuna.
Rigadon. Sì, dite ben, che siate benedetta.
Volete che proviam quel ballo nuovo?
Giuseppina. Obbedire al maestro a me si aspetta.
Rigadon. Tutti i spiacer, che dai scolari io provo,
Compensati mi son da quell’onesta
Bontà, che in voi per mia ventura io trovo.
Principiamo. (vuol ballare con Giuseppina)

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SCENA II.

Lucrezia e detti.

Lucrezia.   Oh di casa. (di dentro)

Rigadon.   E chi è cotesta
Che mi viene a seccar? Se con voi sono,
Ogni cosa m’inqueta e mi molesta.
Lucrezia. Signor maestro, chiedevi perdono.
Ho una cosa da dirvi in confidenza;
Ma in presenza di tanti io non ragiono.
Rigadon. Giuseppina, mi date la licenza
Di ascoltar questa donna?
Giuseppina.   Volentieri:
So del vostro mestier la convenienza.
Vostra sorella mi ha pregato ieri
Le facessi una cuffia; andrò frattanto
A dar mano per essa ai lavorieri.
(Egli mi crede, e mi approfitto intanto
Della sua buona fede a mio talento:
Questo maestro mio per me è un incanto). (via)
Rigadon. Signori miei, nell’altro appartamento
Ad attendermi andate. È necessario.
Che mi lasciate qui per un momento.
Aspetto questa mane un impresario,
Che vuol far compagnia di danzatori,
E si ha a trattar di posto e di onorario.
Per non incomodar loro signori
Più del dovere, alla mia parca mensa
Gradirò questa mane i lor favori.
Filippino. Le grazie che il maestro ci dispensa,
Accetterem con giubilo infinito. (via)
Rigadon. (Quando do da mangiar, ciascun m’incensa).
Rosalba. Grata vi son del generoso invito. (a Rigadon)
Rigadon. Non vi duole più il capo?

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Rosalba.   Signor no.

La vostra cortesia me l’ha guarito. (via)
Rigadon. (Medicato ho il suo male, anch’io lo so.
Ama di Filippin la compagnia,
E il mezzano innocente a loro io fo).
Felicita. Serva, signor maestro.
Rigadon.   Andate via?
Felicita. Signor no, se c’invita a desinare.
Ricusarlo sarebbe scortesia. (via)
Rigadon. Sì sì, quando si tratta di mangiare.
Felicita è cortese. Io mi confido
Nel conte Anselmo. Il manderò a avvisare.
Ei che di generoso aspira al grido,
Manderà da pranzar per tutti noi,
In grazia di colei, ch’è il suo Cupido.
Ora, signora mia, sono con voi.
Compatite di grazia. (a Lucrezia)
Lucrezia.   Eh sì signore:
Ognun far deve gl’interessi suoi.
So che voi siete un uomo di valore,
Ho una figlia che balla, e bramerei
Che in grazia vostra si facesse onore.
Son nata bene, e se i parenti miei
Non mi avessero tutti abbandonata,
In carrozza coi paggi andar potrei.
Per mantener la figlia mia onorata,
E fuor d’ogni pericolo del mondo,
Sul teatro ballar l’ho consigliata.
La pura verità non vi nascondo;
Ha la mia figlia abilità infinita;
Ma a pagar il maestro io mi confondo.
Se vedeste, signor, che bella vita!
Che grazia, che beltà, che portamento!
E quel che stimo, non è figlia ardita.
Quando potei, per suo divertimento

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Insegnare le feci; ed or, meschina!

Trar dee dal ballo il suo sostentamento.
Se volete veder la mia Rosina,
Or la faccio venir; sta qui di fuori
Accompagnata da una sua vicina.
Ehi sentite: pericolo d’amori
Non ci sarà; non vo’ che la mia figlia
Abbia intorno serventi o protettori.
Vi è un cavalier, che per la mia famiglia
Ha della carità, che mi soccorre.
Che mi aiuta, mi assiste e mi consiglia.
Ei per la figlia mia fa quel che occorre;
Ma è solo e vecchio, è un cavalier dabbene,
E di cose d’amor non si discorre.
Ecco Rosina, eccola che viene.
La raccomando a voi la poverina;
Siatele padre, e fatele del bene.
Rigadon. Io mi credea, che tutta la mattina
Andaste dietro a favellar voi sola
Della vostra bellissima Rosina.
Dirvi non ho potuto una parola,
E aspetto di rispondere a dovere
Quando avrò esaminato la figliuola.

SCENA III.

Rosina e detti.

Lucrezia. Siete a tempo venuta.

Rosina.   Sto a vedere.
Che vi siate di me scordata affatto;
I’ era stucca di star a sedere.
Rigadon. La mamma vostra un cicalare ha fatto
Così lungo di voi, che si è scordata
Di dir: salisci, figliuola, ad un tratto.

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Lucrezia. Lasciam ire cotesto. Or che mirata

L’avete, che vi par della fanciulla?
Non è proprio una giovane garbata?
Badate a mene, non le manca nulla;
Larga di spalle, e stretta di cintura,
La gamba ha forte come una maciulla.
Rigadon. Madonna mia, se mai per avventura
Vi credeste parlar con qualche cieco,
Util saria la vostra dipintura.
Ma vi vedo, sorella, ed ho qui meco,
Pronto al bisogno, il mio signor violino,
Con cui far possa esperienza seco.
Fate la riverenza. (a Rosina)
Lucrezia.   Un bell’inchino. (a Rosina)
Rosina. (Fa la riverenza del minuè.)
Lucrezia. Fa gli inchini, se vuol, ancor più bassi.
Rigadon. Per dir la verità, li fa benino.
Fate del minuè tre o quattro passi.
Rosina. (Fa i passi del minuè.)
Lucrezia. Vedete se non pare una matrona,
E non v’è dubbio che il tambur si squassi.
Rigadon. Dite, figliuola mia, sareste buona
Di alzar un poco la capriola in alto?
Rosina. Mi proverò. (s’alza)
Rigadon.   Brava.
Lucrezia.   Non si canzona, (applaudendo alla figlia)
Vi farà, se volete, ancora il salto....
Quel salto che facea nella furlana
Quel ballerino dagli occhi di smalto.
Rigadon. Basta così per or; la caravana
Bisogna fare, e principiar da capo
Per imparar la scuola di Toscana.
Se la vostra figliuola ha sale in capo,
Circa l’abilità non mi scontento,
E in poco tempo noi verremo a capo.

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Ma qual sarebbe il vostro sentimento?

Mi volete pagare un tanto al mese,
O volete facciamo un istrumento?
Lucrezia. Ora non sono in caso di far spese.
Che ti pare, Rosina? cosa ha detto
Questa mattina il povero Marchese?
Rosina. Disse, che se bastasse un regaletto,
Lo darebbe al maestro; una mesata
Non è in caso di darla.
Rigadon.   Parlò schietto.
Quello dunque facciam, che alla giornata
Praticare si suol: le insegnerò
Fino che mi parrà perfezionata;
Procurarle i teatri io penserò,
E di quel che la giovane guadagna.
Per dieci volte la metade avrò.
E se va, per esempio, in Francia o in Spagna,
Voglio la mia metà dall’impresario.
Lucrezia. Ed intanto, signor, cosa si magna?
Rigadon. Han le scolare mie per ordinario
Qualchedun che le aiuta.
Lucrezia.   In casa mia
Va la cosa per or tutto al contrario.
Quel cavalier, che non vo’ dir chi sia,
Quando n’ha avuti, n’ha sprecati assai;
Ma è rifinito, e non è quel di pria.
Io, monsieur Rigadon, mi lusingai,
Che faceste le spese alla figliuola.
Sicuro di non perdere giammai.
Rigadon. Anche questo farò; ma fra la scuola
E il mangiare e il dormire, almeno, almeno.
D’altre recite dieci io vo’ parola.
Lucrezia. Ed io, caro signor, che stento e peno,
Non avrò da mangiar colla mia figlia?
Già mangio poco, e la sera non ceno.

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Rigadon. Ho da fare le spese alla famiglia,

Ho da insegnar, ho d’arrischiare il mio?
Questa cosa, per dirla, mi scompiglia.
Lucrezia. Fatel, per carità.
Rigadon.   Son uomo pio,
Lo farò volontier; ma con un patto.
Che trenta volte la metà vogl’io.
Lucrezia. Dunque la figlia mia può far contratto
Finchè vive ballar per il maestro,
Senz’alcuna speranza di riscatto.
Rigadon. Io non intendo mettervi il capestro.
Se non vi piace, andate alla buon ora,
Ch’io per mercede le ragazze addestro.
Lucrezia. (Tu che dici, Rosina?)
Rosina.   (Eh sì signora.
Accordiamoli pur quel ch’ei domanda.
Simili patti si son voluti ancora).4
Rigadon. E se qualcuno a regalar vi manda,
Consegnatelo a me subitamente,
Ch’io ve lo voglio mettere da banda.
Poichè oltre al mangiar perpetuamente,
Occorron cento coserelle intorno;
E i’ non voglio per ciò spender niente.
Rosina. Dice ben, dice bene. (Verrà il giorno
Che farò a modo mio).
Lucrezia.   Resta accordato,
E farem fra due ore a voi ritorno.
Rigadon. Eh vi è tempo; già il mese è principiato.
Lucrezia. No no, verremo a desinar da voi.
So che degli altri voi avete invitato.
Rosina. Serva, signor maestro.
Rigadon.   Un giorno poi
Di qualche buon precetto salutare
Parleremo in segreto fra di noi.

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Questo sempre ho avvertito alle scolare:

Badate bene a non seccar la gente:
Pelar la quaglia, e non la far gridare.
Lucrezia. Eh, in questo poi non temete niente;
Io son sua madre, e in simile faccenda
Sono stata ancor io donna eccellente. (via)
Rigadon. Addio. (a Rosina)
Rosina.   Serva.
Rigadon.   Non fate che vi attenda
Lungamente a pranzar.
Rosina.   Verrò prestissimo. (via)
Rigadon. Questa ragazza ha abilità stupenda.
Poi ha un’occhio brillante e vivacissimo:
È bella; e mi dispiace, a dir il vero,
Ch’io sono a innamorarmi facilissimo.
Sia vizio di natura, o del mestiero,
Quando mi si presenta una scolara.
Bella o brutta che sia, piacerle io spero.
È ver che Giuseppina è la mia cara.
Ma se mi prendo qualche libertà,
Ella pur non sarà con tutti avara.
Affè di Dio, che il conte Anselmo è qua.
Io mi voglio provar, giacche è venuto,
Di prevalermi della sua bontà.

SCENA IV.

Il Conte Anselmo, Faloppa e detto.

Rigadon. Servo del signor Conte.

Conte.   Vi saluto.
Che fate? State ben?
Rigadon.   Per obbedirla.
Conte. Eccovi del rapè. (gli offre tabacco)
Rigadon.   Non lo rifiuto. (lo prende)

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Conte. Giuseppina che fa?

Rigadon.   Non so, per dirla.
Credo sarà a studiar la lezione.
Conte. Si potrebbe veder?
Rigadon.   Sarà a servirla.
Conte. Permettete ch’io vada?
Rigadon.   Ella è padrone;
Ma mi dispiace, che per rio destino
Troverà la famiglia in confusione.
Conte. Perchè?
Rigadon.   Perchè la bestia di Tognino
Mio servitore ha fatto sì gran foco.
Che s’è accesa la canna del cammino.
E mi dispiace ch’egli è un tristo cuoco,
E il tempo passa, e affè questa mattina,
Per quel ch’i vedo, si vuol mangiar poco.
E mi rincresce per la Giuseppina,
Ch’è delicata, e se non ha buon brodo,
Non c’è dubbio che mangi, poverina.
Conte. Non si può rimediare in qualche modo?
Volete che mandiam dal pasticciere?
Rigadon. La mi farebbe un gran piacer sul sodo.
Conte. Faloppa.
Faloppa.   Mio signor.
Conte.   Va un po’ a vedere.
Se il pasticcier può farmi un desinare. (a Faloppa)
E per quanti si avrebbe a provvedere? (a Rigadon)
Rigadon. Non vorrei che s’avesse a’ incommodare.
Ma a dir la verità, questa mattina
Credo saremo dodici a mangiare.
Conte. Dodici? e perchè tanti?
Rigadon.   Giuseppina
Ha voluto invitar le sue compagne,
E saran poco men di una dozzina.
Se non ha quel che vuol, s’arrabbia e piagne;

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Ma io, che non ho il modo di far spese,

Posso empirle di cavoli e lasagne.
Conte. Vanne, e dirai al pasticcier francese.
Che prepari per dodici persone
Un desinare all’uso del paese.
Hai capito? (a Faloppa)
Faloppa.   Ho capito l’intenzione;
Poco e polito all’uso fiorentino,
Perchè il troppo mangiar fa indigestione. (via)
Rigadon. Mi dispiace davvero, che il destino
Abbia da far cader sopra di lvi
La disgrazia fatal del mio cammino.
Conte. No, monsieur Rigadon, coi pari miei
D’uopo non v’è d’affaticar l’ingegno;
Più leale e sincero io vi vorrei.
Già del vostro pensier son giunto al segno,
Di compiacervi il mio desire agogna.
Lo farò con amore e con impegno.
Per Giuseppina, per voi quel che bisogna5
Comandatemi pur liberamente;
Ma frezzare in tal modo è una vergogna. (via)
Rigadon. Affè l’ha piantata dolcemente6,
E mi credea d’aver pensato in guisa
Da non scoprirmi così facilmente.
Alla fin fine vo’ gettar in risa;
Ei viene a incommodarmi in casa mia,
Ed io non vesto colla sua divisa.
Non faccio il ballerin per bizzarria;
Ho lasciato di fare il parrucchiere
Per insegnare la corografia.
È ver che poco ne poss’io sapere,
E che i bravi maestri m’odian tutti,
Perchè vado sporcando il lor mestiere.

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Ma intanto i’ colgo dell’industria i frutti,

E monsieur diventai colla bravura
Di storpiare le fanciulle e i putti,
E mia germana postasi in altura,
Della mia nobiltà si pavoneggia,
Ch’è propriamente una caricatura.
Crede che questa casa sia la reggia.
Che ogni scolara suddita le sia;
E ciascun dolcemente la pasteggia.
Ma il Conte è entrato dentro, e non vorria
Che a Giuseppina facesse il galante:
Qualche volta ho un tantin di gelosia.
Ho delle ballerine tante e tante,
Ma questa più dell’altre mi ha colpito
Colla grazia, col vezzo e col sembiante.
E mi lusingo d’esserle marito,
E quando arriverà ad esser mia sposa,
Forse d’esser geloso avrò finito,
Che l’amante e la moglie è un’altra cosa.

Fine dell’Atto Primo.


Note

  1. Così il testo, nell’ed. Zatta.
  2. C. s.
  3. Così il testo, nell’ed. Zatta.
  4. Così il testo, nell’ed. Zatta.
  5. Così l’ed. Zatta.
  6. Così l’ed. Zatta. Forse è da correggere: Affè che l’ha ecc.