Quando parlo con voi, quando vi vedo,
Che propriamente mi andate a fagiuolo.
Il conte Anselmo che vien qui, non credo
Che altro esiga da voi, che buona ciera,
E per questo trattarlo io vi concedo.
È vero che alla cena di iersera
Vi parlò nell’orecchio eternamente,
E non mi piacque quella sua maniera.
Ma pensai ch’egli spende, e civilmente
Soffrir si può da un uomo generoso
Qualche scherzo giocoso indifferente.
Io non sono perciò di lui geloso;
Coltivatelo pur; ma non vorrei,
Che mi faceste perdere il riposo.
Giuseppina. Oh caro maestro mio, so i dover miei;
E se un re mi volesse incoronare,
La corona per voi rinunzierei.
Ma son povera figlia, e col ballare
Non mi lusingo di una gran fortuna,
E voi pochino mi potete dare.
In casa vostra spesso si digiuna;
Il Conte manda sempre qualcosetta,
Ed io lo fo senza malizia alcuna.
Rigadon. Sì, dite ben, che siate benedetta.
Volete che proviam quel ballo nuovo?
Giuseppina. Obbedire al maestro a me si aspetta.
Rigadon. Tutti i spiacer, che dai scolari io provo,
Compensati mi son da quell’onesta
Bontà, che in voi per mia ventura io trovo.
Principiamo. (vuol ballare con Giuseppina)