La rivoluzione di Napoli nel 1848/42. Spedizione di Sicilia
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42. Oltre le anzidette il governo aveva ancora altre ragioni per isbarazzarsi della Camera. La guerra di Sicilia andava ad incominciare. Non essendo mio disegno, come ho detto, descrivere le cose dell’altra parte di là del Faro, accenno solamente, per non interrompere la lunga catena dei delitti del governo napolitano, e passo oltre. Il seguito di questa storia è una mesta pagina. L’opera della demolizione della costituzione non s’arrestò più: e ad ogni giorno che cadeva, lo statuto depositava una sua foglia sul cenotaffio della libertà. Che poteva più rattenere re Ferdinando? Vedeva la stella dell’Austria riapparire sull’orizzonte, e l’Italia avvilupparsi nel suo antico sudario per discendere nella fossa. Furono quindi riprese le relazioni diplomatiche con l’Austria; rotto qualunque legame di patria e di sangue con l’Italia. Quest’opera contro natura, questo parricidio morale fu consumato a sangue freddo; e per dargli una consacrazione più vasta, si comandò la spedizione di Sicilia. I preparativi già si facevano da lungo tempo e senza mistero. La camera dei deputati ebbe torto di non interpellare i ministri. Sarebbe stata una menzogna di più, in faccia alla quale essi non avrebbero al certo rinculato: ma l’interpellazione avrebbe protestato innanzi al mondo, la nazione non essere nè connivente nè solidale nel fatto del governo. Se i siciliani avevano innalzata la bandiera della discordia, e scisso un altro membro nel corpo anatomizzato d’Italia, non toccava ai napolitani, che avevan gemuto alla catena stessa, assumere la parte di carnefici. Questo oblio è una macchia nella vita della camera napolitana. — I siciliani avevano fatti preparativi stupendi, o almeno con grande iattanza i giornali li annunziavano. L’Inghilterra ne aveva riconosciuta l’indipendenza di fatto; la Francia ne negoziava la pace, ed ambo apertamente li favorivano. Avevano avuto armi a dovizia, munizioni di ogni maniera, soldati stranieri che accorrevano da per tutto alla crociata della libertà, generali francesi, italiani, polacchi, di cuore e di mente sperimentati: avevan danari a sufficienza ed un popolo energico e deciso a sottrarsi agli artigli dei Borboni; infine avevano avuto il tempo per apparecchiarsi ad una guerra senza misericordia e senza transazione. Tra soldati di linea e guardia mobile i giornali siculi parlarono di centomila e più combattenti! Le città e le strade erano state minate. Le donne delle più distinte famiglie avevano con entusiasmo cooperato agli apparecchi dell’ambulanza, ed erano concorse perfino a dividere col popolo i lavori delle fortificazioni di Palermo e di Catania. Lo spirito avventuroso ed intrepido dei cittadini era provato per una rivoluzione compiuta con tanta perseveranza e con tanto coraggio. I napolitani quindi se non avevano potuto impedire la spedizione, anzi erano stati forzati a pagarla con la sopra imposta, ordinata dal ministero Troya per la guerra di Lombardia, e con un debito di dodici milioni di ducati; i napolitani speravano che gli assassini del 15 maggio sarebbero andati colà a toccare la mercede delle opere loro. Speravano che i siciliani li avrebbero vendicati, e che, attenuate le schiere del re, avrebbero insieme potuto acclamare la vittoria su i rottami del trono di Carlo III. E non lo speravano solo, ma quasi ne gongolavano per sicurezza. Qual colpo di fulmine non fu dunque quando il telegrafo del general Filangieri annunziò, con un laconismo spaventevole: Messina è a noi! Il messo non mentiva. Il generale aveva per modo concertate le cose, che impossibile sarebbe stato resistere. La cittadella da un lato, di fronte la flotta, dall’altro capo un corpo di artiglieria, in Europa a niuno secondo, da per tutto soldati, che fatalmente per causa infamissima spiegarono coraggio senza misura. Aggiustato tutto con accorgimento e con genio di guerra, l’infelice città fu avviluppata in un cerchio di fuoco, sì che parea un cratere di vulcano che erompe. Le prove di Sagunto e di Saragozza furono rinnovate. Nella presa di Gerusalemme fatta dai Romani, e nel sacco di Roma del XVI secolo non successero scene più atroci e più forsennate. Da ambo le parti non combattevano più uomini, ma belve. Guai a chi soccombeva! la morte non bastava, domandavano la loro sazietà. Se gli sventurati cittadini non fossero fuggiti dalla città, che minacciava crollare dalle fondamenta, neppur uno sarebbe sfuggito alla libidine, all’avidità, alla ferocia del soldato di Napoli. La città ardeva in tutti i punti. Ed onta sia al general Filangieri che ha macchiato la sua fama di uomo di guerra facendo continuare per più ore, quando ogni resistenza era cessata, una tempesta di bombe per distruggere affatto una città vuota di difensori. Dopo aver fatta la guerra agli uomini si continuò alla proprietà: distrutto il presente, si volle divorar l’avvenire. Il Filangieri si è di poi giustificato, innanzi alla camera dei pari di Napoli, dall’accusa che tutta la stampa europea gli rovesciava sul capo, sulla testimonianza delle squadre francesi ed inglesi che erano nella rada. La camera lo assolse: ma lo ha assoluto la storia? lo assolve la sua propria coscienza, che deve ad ogni momento rimproverargli aver fatto strumento della rabbia del Borbone il suo ingegno, il suo saper militare, ed un nome senza macchia, trasmessogli da un padre che è una delle più belle gemme della sapienza d’Italia?
Caduta Messina, Melazzo la segui. L’ostinazione e la bravura mostrata dai messinesi facevano ancora sperare a’ radicali napolitani; perchè non tutte le altre città di Sicilia erano al pari di Messina sotto la signoria di una cittadella inespugnabile. Gli apparecchi fatti altrove si dicevano più vigorosi. Ma la nostra aspettazione fu delusa. L’Inghilterra e la Francia s’interposero: si cominciò a trattare di pace: si accozzò a Gaeta anche un ultimatum oltraggioso che i siciliani meritamente respinsero, ed alcuni mesi dopo la prima catastrofe, la guerra si riaccese. Catania offrì anch’essa nobile resistenza e molte centinaia di napolitani vi perirono. Anch’essa patì il martirio delle bombe e dei razzi. Anch’essa prima di cadere si satollò di una grande ecatombe di soldati napolitani. Ma a costoro, esilarati omai dall’ubbriachezza della vittoria, ed eccitati dalla lascivia e dalla rapina, a costoro nulla poteva più resistere. Ed invero non avevano essi vinta Messina, miracolo di ardimento e di forza? Catania fu soggiogata e sottoposta del pari alla taglia impura del sacco e del fuoco. Il soldato napolitano aveva bisogno di un movente per battersi: perchè egli curavasi poco, checchè se ne pensi, di battersi pel re. Non potendo quindi combattere per principii gloriosi, di cui non aveva neppur nozione, combattette per sè, combattette per bottinare, per arricchirsi. Espose la vita per ricolmare la scarsella e gavazzare nell’orgia. Gli uffiziali sono stati accusati di aver tollerati gli eccessi più scellerati. Io non intendo difenderli. Solo fo osservare che il comando del re era preciso. Questi dubitava di molti uffiziali dell’armata, la quale se conta molti uomini infami, conta pure in copia anime generose ed indipendenti; aveva perciò detto al soldato: il padrone sei tu! agli uffiziali: lasciateli fare! Il re aveva rotta la disciplina, e demoralizzata la soldatesca per adescarla alla sua causa; ed essa non obbedì più. E se qualcuno tentava opporsi ai suoi delitti, gli davano del repubblicano, lo minacciavano nella vita. Tutto il peso adunque dello sterminio del popolo siciliano debbe esclusivamente gravitare su Ferdinando Borbone e suoi accoliti. Gli uffiziali obbligati a far la guerra l’avrebbero fatta, con piacere senza dubbio, ma lealmente. Resa Catania, noi ci illudevamo ancora. Ci ostinavamo a non credere ai bullettini della guerra, e speravamo sulla Gibilterra del popolo siciliano, Palermo. Niente si era risparmiato per renderla formidabile. Credevasi da tutti che la marcia delle schiere napolitane avrebbe intoppato colà, credevasi che la vittoria permessa loro sino a quel punto fosse una trappola per attirarle in quella tomba. Le strade dicevansi tutte minate. Noi dunque aspettavamo prodigi; quando tutto ad un tratto la novella ci giunge che i membri del governo si erano imbarcati sopra un vapore inglese; che la città domandava a capitolare; ed immediatamente dopo che, quasi senza capitolazione, essa che aveva respinto l’ultimatum di Gaeta ottenuto dalla mediazione, senza resistere, senza protestare neppure, erasi arresa. Credemmo trasognare. Una parola di dispetto ci corse involontariamente sulle labbra, poi l’arrestammo e dicemmo: questo è un mistero orribile che un giorno sarà palesato: il popolo siciliano è bravo. E lo diciamo ancora, ed aspettiamo veder chiaro in un fatto, di cui abbiamo relazioni o troppo confuse o troppo passionate. Aver fatti tanti preparativi per cedere a Palermo, quasi senza colpo ferire! aver menata tanta baldanza per piegare il collo a discrezione del re! aver domandata l’indipendenza, averne ottenuta la ricognizione da una grande nazione, aversi dato un altro principe, aver rifiutato una conciliazione dura, trista, è vero, ma garantita dalla Francia e dall’Inghilterra; aver con tanto rumore assordata l’Europa dell’ingiustizia sofferta e della vendetta che apprestavasi a domandarne; per poi morire come un modesto villano, il quale non ha di che pagare la carità sacerdotale, estinguersi come la lucerna del povero per mancanza di alimento! Siciliani, noi crediamo per pruova alla vostra virtù; noi siamo convinti che sarete un eterno cilizio accollato ai fianchi della casa dei Borboni, e che non le darete mai nè pace nè tregua; rischiarateci: il vostro onore, l’onore d’Italia lo esige. Venezia e Roma dissero meno e fecero più.