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del re era preciso. Questi dubitava di molti uffiziali dell’armata, la quale se conta molti uomini infami, conta pure in copia anime generose ed indipendenti; aveva perciò detto al soldato: il padrone sei tu! agli uffiziali: lasciateli fare! Il re aveva rotta la disciplina, e demoralizzata la soldatesca per adescarla alla sua causa; ed essa non obbedì più. E se qualcuno tentava opporsi ai suoi delitti, gli davano del repubblicano, lo minacciavano nella vita. Tutto il peso adunque dello sterminio del popolo siciliano debbe esclusivamente gravitare su Ferdinando Borbone e suoi accoliti. Gli uffiziali obbligati a far la guerra l’avrebbero fatta, con piacere senza dubbio, ma lealmente.

Resa Catania, noi ci illudevamo ancora. Ci ostinavamo a non credere ai bullettini della guerra, e speravamo sulla Gibilterra del popolo siciliano, Palermo. Niente si era risparmiato per renderla formidabile. Credevasi da tutti che la marcia delle schiere napolitane avrebbe intoppato colà, credevasi che la vittoria permessa loro sino a quel punto fosse una trappola per attirarle in quella tomba. Le strade dicevansi tutte minate. Noi dunque aspettavamo prodigi; quando tutto ad un tratto la novella ci giunge che i membri del governo si erano imbarcati sopra un vapore inglese; che la città domandava a capitolare; ed immediatamente dopo che, quasi senza capitolazione, essa che aveva respinto l’ultimatum di Gaeta ottenuto dalla mediazione, senza resistere, senza protestare neppure, erasi arresa. Credemmo trasognare. Una parola di dispetto ci corse involontariamente sulle labbra, poi l’arrestammo e dicemmo: questo è un mistero orribile che un giorno sarà palesato: il popolo siciliano è bravo. E lo diciamo ancora, ed aspettiamo