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certate le cose, che impossibile sarebbe stato resistere. La cittadella da un lato, di fronte la flotta, dall’altro capo un corpo di artiglieria, in Europa a niuno secondo, da per tutto soldati, che fatalmente per causa infamissima spiegarono coraggio senza misura. Aggiustato tutto con accorgimento e con genio di guerra, l’infelice città fu avviluppata in un cerchio di fuoco, sì che parea un cratere di vulcano che erompe. Le prove di Sagunto e di Saragozza furono rinnovate. Nella presa di Gerusalemme fatta dai Romani, e nel sacco di Roma del XVI secolo non successero scene più atroci e più forsennate. Da ambo le parti non combattevano più uomini, ma belve. Guai a chi soccombeva! la morte non bastava, domandavano la loro sazietà. Se gli sventurati cittadini non fossero fuggiti dalla città, che minacciava crollare dalle fondamenta, neppur uno sarebbe sfuggito alla libidine, all’avidità, alla ferocia del soldato di Napoli. La città ardeva in tutti i punti. Ed onta sia al general Filangieri che ha macchiato la sua fama di uomo di guerra facendo continuare per più ore, quando ogni resistenza era cessata, una tempesta di bombe per distruggere affatto una città vuota di difensori. Dopo aver fatta la guerra agli uomini si continuò alla proprietà: distrutto il presente, si volle divorar l’avvenire. Il Filangieri si è di poi giustificato, innanzi alla camera dei pari di Napoli, dall’accusa che tutta la stampa europea gli rovesciava sul capo, sulla testimonianza delle squadre francesi ed inglesi che erano nella rada. La camera lo assolse: ma lo ha assoluto la storia? lo assolve la sua propria coscienza, che deve ad ogni momento rimproverargli aver fatto strumento della rabbia del Borbone il suo ingegno, il