La rivoluzione di Napoli nel 1848/29. Barricate
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29. Donde fosse partita l’iniziativa di questa misura estrema non si sapeva. Uomini ignoti, ceffi sinistri le elevavano, e fuvvi chi asserì avervi riconosciuti financo dei gesuiti travestiti. Sia comunque, alcuni briccioli di guardia nazionale per elezion propria si presentarono a parecchi punti per far desistere dall’opera, ma non ne cavarono che l’insulto di poco teneri della libertà della patria, d’improvvidi e di poltroni. La città si proclamava in preda ai nemici. — Nella Camera si scongiurò di nuovo il general Pepe di mettersi alla testa di un forte manipolo di gente ed obbligare, con la forza, che quegl’impacci si distruggessero. Pepe si negò, adducendo poco innanzi averlo tentato, ed essere stato vituperato di rinnegato e di realista. Il colonnello Gallotti si negò del pari dichiarandosi impossente. Però, punto sul vivo, consentì di andarvi, con due rappresentanti, come apportatore degli ordini della Camera. Spaventa ed io lo accompagnammo; ma nè le minacce, nè le preghiere, nè i consigli si vollero udire. Ci dissero ignari dei fatti che succedevano altrove, troppo confidenti nella propria dignità, troppo poco studiosi della nostra responsabilità in mantenere la sicurezza e la libertà del paese. Si asseverò che una grande cospirazione sarebbe scoppiata o nella notte o all’indomani, e che rappresentanza e costituzione periclitavano. Scoraggiati tornammo all’assemblea e perplessi, perchè tra un nugolo di gente, per la prima volta veduta, avevamo scorto qualche amico che, illuso anch’esso, prestava il braccio ad una trama scellerata. Unitamente a noi, alle quattro del mattino, giungeva il ministro Manna, il quale, in nome del re, notificava che il giuramento non si sarebbe prestato. Essendosi infatti trovato il mezzo più comodo delle barricate, a qual pro il giuramento? La Camera non pertanto si felicitò per la sua fermezza, e si aggiornò per le nove ore, nel sito stesso, onde tutti insieme recarsi alla chiesa per la messa dello Spirito Santo, e quindi al locale dell’assemblea. Lanza, presidente provvisorio, diresse ai cittadini un proclama, annunziando il felice scioglimento di una dissensione, a cui i pari non poca parte avevano presa, e pregavali di fare incontanente scomparire qualunque traccia di discordia. — La nostra voce era fiacca, impotente: eravam troppo pochi per lacerare la tela dei delitti con tanto accorgimento fabbricata: vi era un partito determinato a non farla prevalere. Gli uomini che agivano nelle tenebre non, avrebbero ceduto che alla forza; ma alcuni capi della guardia nazionale, sia che avessero paura, sia che fossero complici, non la vollero adoperare.
I deputati, uscendo dall’assemblea ai primi albòri del nuovo dì, passando sulle barricate, avean pregato, anzi avevano imposto di disfarle. Si promise: ma quando, cinque ore più tardi, essi tornavano al loro posto, ebbero a ripassare sugli stessi altari della guerra civile. Chi era dunque che contro il volere della rappresentanza nazionale, contro l’opinione di tutti i cittadini inesorabilmente si ostinava a tener testa? Il mistero ha cominciato a far travedere alcune delle sue brutture, ma in tutto il sozzo della sua tristizia non si è ancor rivelato. Questo è certo, che i liberali, i radicali sopra tutto, vi furono stranieri o si dichiararono incompetenti. Essi non volevano punto di quella commedia. Essi sapevano che il giorno che dovea distruggere il principato e cacciar via la famiglia Borbone non poteva esser altro se non l’indomani di quello, in cui un italiano, dalla cima delle Alpi, avrebbe riguardate le pianure del Veneto e del Lombardo ed avrebbe detto: quella è Italia! Le barricate furono concepite forse dal Filangieri, nei saturnali della corte, quando la fermezza della Camera rese impossibile o troppo pericoloso il giuramento, dalla corte furono pagate e fatte drizzare. Nell’aulico consiglio di un re, che si confessa e si comunica tutte le mattine, erasi risoluto distruggere di un colpo solo quanto il paese aveva di più libero e di più eminente. — Perciò dei messi avvertirono i corpi di truppa, acquartierati nelle vicinanze della città, tenersi pronti sotto le armi, ed al primo segnale telegrafico, occupare le strade di ferro, e marciar sopra Napoli. Perciò un plico suggellato era inviato al general Roberti, comandante del castello Sant’Eramo che domina la città, con ordine di non aprirlo, se non quando una bandiera rossa innalzata sul reale palazzo gliene avesse dato il segnale. Perciò quantunque le barricate non avessero più ragione di essere, furono mantenute, anzi fu dato ordine d’indebolirle e moltiplicarle. Perciò gli uffiziali superiori della guardia nazionale, quando si ebbe uopo di loro, o non si trovarono più o si rifugiarono nella Reggia. Quante perfidie, quante viltà, quanti delitti non si commisero in quella notte e nel fatale domani!