La rivoluzione di Napoli nel 1848/27. Situazione del re - Cospirazione
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27. Per trovare la parola dell’enigma di questo colpo di Stato, bisogna esaminare profondamente la situazione di casa Borbone nel paese e nel resto d’Italia. La rivoluzione italiana che era principiata, diciam così, senza idea preconcetta e senza scopo determinato, barcollando tra velleità e nullità, cominciava adesso a formularsi chiara, intera, grandiosa. Il suo primo impulso era stato la conquista della libertà, e possiamo quasi dire della civiltà e della maggioranza. Ma questi diritti, facilmente usurpabili e sterili, non potevan bastare ad una nazione il cui spirito civile e positivo è informato da un istinto eterno di bello e di vero. Per essa vi voleva qualche cosa di più che la forma, l’anima; qualche cosa di più che la libertà, la nazionalità. Dilacerata in sette brani, essa voleva ricomporre il suo mantello imperiale. Il lauro di Cesare sulla testa di un barbaro era un oltraggio all’iniziativa d’incivilimento che l’aveva contraddistinta nei secoli passati. Voleva tornare a riporselo sul capo, rialzandosi regina e donna di sè. Era stanca di quei proconsoli austriaci che rosicchiavano la penisola. E papi e re erano un impaccio alla libertà, un soporifero alla civiltà. L’idea d’indipendenza quindi, l’idea di unità si elevarono sfolgoranti sull’orizzonte della rivoluzione, e ne formarono tutto il programma. Questi due grandi bisogni correvano ad una soluzione. La buona fortuna era per allora di Carlo Alberto che, di casa italiana, combattendo per la nazionalità italiana, cominciava ad aggruppare intorno a sè i brani differenti d’Italia. I Ducati, il Lombardo, il Veneziano erano a lui; per lui caldeggiavano i siciliani e ben tosto gli si davano; a lui la simpatia di tutti gl’italiani, i quali, se la fortuna lo avesse favorito, non avrebbero certo domandato di meglio che avere un signore glorioso e guerriero, se d’uopo era ancora di averne uno. La decadenza morale, che gli veniva per controcolpo, atterriva il Borbone. Il giorno del suo bando approssimava a misura del rinculare dell’Austria innanzi alle armate italiane. Egli scendeva tanto più basso quanto più sfolgorante la stella della casa di Savoia s’innalzava.
All’esterno egli aveva perduto ogni prestigio, all’interno ogni forza. La rivoluzione guadagnava terreno tutti i giorni: tutti i giorni qualcuno dei gioielli della sua corona cadeva. Era assorbito da una voragine nel cui fondo vedeva la sua rovina e quella della sua famiglia. I partigiani si allontanavano da lui a misura che egli precipitava: la resistenza addoppiava a misura che le sue forze mancavano. Una vertigine inflessibile gli scompigliava intorno l’universo. I suoi soldati ed il suo navile eran partiti per andare a colpire del colpo di grazia l’Austria, spezzargli sotto il petto l’ultima tavola del naufragio. I rappresentanti, in gran parte radicali, si agglomeravano nella metropoli, e non celavano niente affatto le loro idee. La guardia nazionale aveva pubblicata la sua professione di fede, non riconosceva che la camera dei Comuni. Alcuni reggimenti avevan protestato il loro attaccamento al popolo, e segnatamente l’artiglieria. In una parola, la sua perdizione sembrava inevitabile: sentiva essere incompatibile con la nazione, con l’Italia, col secolo. Non gli restavano che pochi famigliari: non credevano in lui che gli svizzeri, il corpo di marina, ed i granatieri reali. Educato dai preti, tenuto al guinzaglio dai frati, re Ferdinando è di carattere ora timido, ora petulante. L’avversità lo annulla, perchè inusitata, lo gitta in una regione incognita e soffocante. Si ucciderebbe se la superstizione e la paura non gli arrestassero il braccio. Allora si abbandona alla provvidenza. E tormentato dalla necessità di uscire da una situazione, in cui sente morirsi, spinto da una confidenza fatale in Dio, ciò che altri farebbe per coraggio e per risoluzione, egli fa per fede ostinata nelle madonne di tutti i colori, e nei santi di tutte le dimensioni. La sua rovina era inevitabile: Dio solo poteva salvarlo: provocò un miracolo. La contemporaneità dei colpi di Stato di Parigi, Vienna e Napoli, benchè avessero spirito ed esito diverso, non è forse una coincidenza fortuita. All’avvenire lo schiarimento: noi contentiamoci di constatarne l’esistenza e manifestarne il dubbio. Quel che è certo, a Napoli si era da un pezzo travagliato per ordire l’attentato; e qualcuno di coloro, che poscia palesaronsi come ministri, sicuramente non vi era straniero. Da otto giorni poi un’attività insolita regnava nella corte, per ordinario sì mesta e solitaria, nella corte che si era divisa affatto dal paese ed isolata come un lazzaretto. Il popolo era tormentato da un’ansietà inesplicabile: qualche cosa di minaccevole e di oscuro si sentiva alitare nell’aria. Militari d’ogni grado, figure sinistre d’ogni maniera brulicavano nel castello: aspetti ignoti soffiavano nel popolo progetti terribili, partiti estremi. I preti, i frati del Carmine, il famoso Don Placido Backer, insinuavano nella plebe strani consigli, e proscrivevano le teste di certi malvagi, i quali tentavano scompigliare l’ordine che Iddio creava assoggettando l’uomo all’autorità del prete e del re, imagini di Dio. Dicevano che bisognava resistere in quel martirio morale fino alla morte, distruggere, ad alcuno non perdonare. Nei quartieri dei soldati fedeli, che soli si erano lasciati nella capitale, gli uffiziali facevan giurare obbedienza esclusiva e cieca al re, che li pagava, li amava tanto, e promettevan favori senza misura: inoltre facevan loro giurare non riconoscere altri ordini tranne quelli del re, solo padrone: resistere a qualunque volere dei liberali, aiutarli a sbarazzarsi di quella sozzura di Carta pregna di eresie che taluni tristi, abusando della buona fede del re, gli avevano strappata di mano. La costituzione è l’antipodo del Vangelo, essi dicevano, ed il papa l’ha scomunicata. Degli emissarii infine spargevano danari nei quartieri dove la plebe era più bruta, nel Mercato, a Santa Lucia, e l’ingaggiavano a far sacramento di obbedire e difendere la Madonna del Carmine ed il re, da quegli atei dei liberali, promettendo che avrebbero fatto man bassa della roba e della vita di costoro, perchè sta scritto che tutti i beni della terra appartengono ai soli fedeli. Tutte queste perfidie produssero il loro frutto.