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ancora di averne uno. La decadenza morale, che gli veniva per controcolpo, atterriva il Borbone. Il giorno del suo bando approssimava a misura del rinculare dell’Austria innanzi alle armate italiane. Egli scendeva tanto più basso quanto più sfolgorante la stella della casa di Savoia s’innalzava.

All’esterno egli aveva perduto ogni prestigio, all’interno ogni forza. La rivoluzione guadagnava terreno tutti i giorni: tutti i giorni qualcuno dei gioielli della sua corona cadeva. Era assorbito da una voragine nel cui fondo vedeva la sua rovina e quella della sua famiglia. I partigiani si allontanavano da lui a misura che egli precipitava: la resistenza addoppiava a misura che le sue forze mancavano. Una vertigine inflessibile gli scompigliava intorno l’universo. I suoi soldati ed il suo navile eran partiti per andare a colpire del colpo di grazia l’Austria, spezzargli sotto il petto l’ultima tavola del naufragio. I rappresentanti, in gran parte radicali, si agglomeravano nella metropoli, e non celavano niente affatto le loro idee. La guardia nazionale aveva pubblicata la sua professione di fede, non riconosceva che la camera dei Comuni. Alcuni reggimenti avevan protestato il loro attaccamento al popolo, e segnatamente l’artiglieria. In una parola, la sua perdizione sembrava inevitabile: sentiva essere incompatibile con la nazione, con l’Italia, col secolo. Non gli restavano che pochi famigliari: non credevano in lui che gli svizzeri, il corpo di marina, ed i granatieri reali. Educato dai preti, tenuto al guinzaglio dai frati, re Ferdinando è di carattere ora timido, ora petulante. L’avversità lo annulla, perchè inusitata, lo gitta in una regione incognita e soffocante. Si ucciderebbe se la superstizione e