<dc:title> La rivoluzione di Napoli nel 1848 </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Ferdinando Petruccelli della Gattina</dc:creator><dc:date>1850</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Petruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/28._Formola_del_giuramento_-_Agitazione&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20240419164753</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/28._Formola_del_giuramento_-_Agitazione&oldid=-20240419164753
La rivoluzione di Napoli nel 1848 - 28. Formola del giuramento - Agitazione Ferdinando Petruccelli della GattinaPetruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu
[p. 97modifica]28. I deputati convennero a Napoli. Innanzi d’impegnare le risorse estreme, il governo, e per governo io intendo sempre la corte ed il re, volle scandagliarne l’indole. La vittoria per l’intrigo era meno temeraria, e sopra tutto meno pericolosa. Un suo occulto affiliato, Francesco Paolo Ruggiero, diresse una circolare ai deputati, deputato anch’esso, di riunirsi in casa sua in seduta preparatoria, onde ragionare della condotta a tenersi nella sessione rispetto al governo, ed intendersi intorno a’ mezzi. Molti, che conoscevano la frenesia d’intrigo e la brutta fama dell’uomo, risero dell’invito e non andarono: altri portaronsi al convegno; ma dopo un’ora di tumultuoso gridare, partirono [p. 98modifica]indignati. Ruggiero intanto aveva capito che la camera osteggiava pronunziatamente la corte e sosteneva il ministero Troya, già in modo supremo inviso al re. Fece il suo rapporto. Le promesse del portafogli gli furono confermate, e gli fu ingiunto di continuare a rappresentare la sua parte, vedere, provocare le dichiarazioni di tutti, notare, spingere, lottare, onde finirla una volta, per una maniera qualunque. Con queste istruzioni venne alla camera: con questi principii si avvicinò poi ai costruttori di barricate per animarli. La sera del 13 maggio il ministero pubblicò il programma delle cerimonie con cui il giorno 15 il Parlamento dovevasi aprire. Il dì 14 i rappresentanti stimarono opportuno riunirsi nel palazzo della città per discuterlo. In esso dicevasi che i deputati, prima di recarsi alla Camera, sarebbonsi recati alla chiesa, onde in presenza del re, dello stato maggiore, dei pari ed altri funzionarii pubblici, prestar giuramento alla fede cattolica, al re ed allo Statuto del 10 febbraio. Questa trista fatalità della religione di mischiarsi in tutto, anche nelle cose le più incompatibili alla sua natura, questa necessità ostinata dell’ab Jove principium dispiacque a molti. Moltissimi poi trovarono inconseguente il giuramento, perchè non potevasi prestare a cosa che non esisteva ancora. Il programma del 5 aprile aveva sanzionato che la rappresentanza nazionale avrebbe svolto lo Statuto. Le elezioni erano state compiute sotto questa influenza, con questo mandato. Il ministero fu biasimato per aver condisceso a tali desiderii del re: ed una commissione andò a notificargli nel tempo stesso ed il biasimo ed il rifiuto del giuramento. Ferdinando ne gongolò di gioia ed ostinossi nella formalità: i preti sussurrarono i [p. 99modifica]deputati essere atei per rifuggire da una cerimonia così santa. Le cose cominciarono ad imbrogliarsi; le ostilità dichiararonsi. Una nuova formola di giuramento dettata dalla camerilla o dalla camera dei pari, fu mandata all’assemblea; ma, come quella del governo, non facendosi in essa affatto parola della facoltà di rivedere e sanzionare lo Statuto devoluta ai rappresentanti, essi s’indignarono unanimamente e la formola fu respinta come oltraggiosa ed illegale. L’eccellente Pica, per conciliare le parti, ne accozzò un’altra in cui del diritto anzidetto facevasi motto. Mandata a corte, a sua volta, dal re e dai pari fu rigettata. Il ministro Conforti, che i progetti sinistri del Borbone aveva compresi, recossi allora alla Camera e con parole nobilissime la supplicò di passar oltre ad una quistione di forma, e di rivolgere invece il suo patriottismo sul gran fatto dell’indipendenza d’Italia che allora agitavasi, e che doveva dominare nell’atmosfera di tutte le nostre deliberazioni, come voleva lo spirito e l’essenza della situazione. Indi senza circonlocuzioni accusò i rei disegni del re. La giovane Camera, naturalmente suscettibile delle sue prerogative cui vedeva violare fin dal suo nascere, non rassegnossi a portare questo peccato di origine, dichiarando la sua minorità, ed abdicando col primo suo atto. Dall’assemblea alla corte messaggi sopra messaggi andavano e venivano, senza nulla conchiudere, anzi la dignità e la sovranità dei rappresentanti compromettendo. Il re teneva al giuramento ed alla sua formola. La voce della dissensione provocata da un obbietto così cardinale si propagò per tutta la città, e tosto una convulsione morale comprese tutte le classi. Dovunque era un formar di circoli. Nei caffè, nei [p. 100modifica]crocchi, nelle piazze, i cittadini si arrestavano per interrogarsi, si conoscessero o no; il fremito era generale, completo. I giovani fra gli altri, i radicali, si assembravano per deliberare a loro volta: la patria fu dichiarata in pericolo. Lungo la strada Toledo quanto la città aveva di virile e di nobile si riunì. Stretti in massa, animati da un principio, senza concerto preso, si diressero verso il luogo dove l’assemblea sedeva. E generale della guardia nazionale, Gabriele Pepe, uomo intero, libero, ma oramai di mente infiacchito, alcuni uffiziali superiori della guardia stessa, si opposero all’imponente massa, e la pregarono di sciogliersi, per non riscaldare ed appassionare vieppiù una disputa oramai calda troppo. La scongiurarono in nome della libertà del paese e dell’Italia a non pregiudicare alla libertà di azione del Parlamento. Promisero che tutto si sarebbe dignitosamente conciliato; che l’assemblea non avrebbe corso alcun rischio; che la guardia nazionale si sarebbe messa sotto le armi. A tali assicurazioni una parte di quel popolo cesse e si disperse: ma un’altra, non avendo fiducia in quelle parole officiali, persistette ad andare innanzi, e silenziosamente e dignitosa si accolse sotto i balconi del Parlamento. Quand’ecco la voce si sparge, una grossa colonna di svizzeri da un punto della città, ed uno o più squadroni di cavalleria dall’altro percorrere le strade ed obbligare la folla a ritirarsi. Un grido universale allora si udì: da dentro l’assemblea: siamo traditi! da fuori: viva la camera! coraggio! coraggio! Il comandante della guardia nazionale caldamente impegnato di far battere la generale, si oppose. Parlò di complicazioni inevitabili che sarebbero sorte, di guerra civile, [p. 101modifica]di temperanza; ma le sue idee non avevano più nesso alcuno. Costabile Carducci, colonnello della guardia nazionale della provincia di Salerno, propose a sua volta di farla venire: ma i moderati respinsero la proposizione, non volendo propagare l’allarme e spingere le cose all’estremo. Invece si mandò una commissione al re perchè facesse rientrare la soldatesca. Il principe Pignatelli Strongoli, delegato dalla Camera dei pari, venne contemporaneamente a presentare un’altra formola di giuramento, da quella Camera adottata già. Ma neppur essa accennando l’articolo del programma del 5 aprile, che si voleva ad ogni costo sconoscere, si ributtò, e si conchiuse che o non sarebbesi giurato affatto, o sarebbesi giurato giusta i sensi espressi dal Pica. Lo Strongoli apportava quest’ultimatum ai pari, una commissione al re perchè avesse scelto. I deputati non potevano palesare maggior desiderio di conciliazione. Solamente essi sono biasimevoli per aver negletto di provvedere con misure opportune al caso di rifiuto del dilemma proposto; e questa impreveggenza li perdette. Il fermento intanto e l’ira del popolo cresceva: parole d’ingiurie, propositi di vendette udivansi per tutto. La città era tuttaquanta o sulle strade o ai balconi. Il re ordinò che la truppa rientrasse nei quartieri. La calma prometteva ristabilirsi; ma ecco la novella si spande che le barricate cominciavansi a costruire nella strada di Toledo.