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di casa Borbone nel paese e nel resto d’Italia. La rivoluzione italiana che era principiata, diciam così, senza idea preconcetta e senza scopo determinato, barcollando tra velleità e nullità, cominciava adesso a formularsi chiara, intera, grandiosa. Il suo primo impulso era stato la conquista della libertà, e possiamo quasi dire della civiltà e della maggioranza. Ma questi diritti, facilmente usurpabili e sterili, non potevan bastare ad una nazione il cui spirito civile e positivo è informato da un istinto eterno di bello e di vero. Per essa vi voleva qualche cosa di più che la forma, l’anima; qualche cosa di più che la libertà, la nazionalità. Dilacerata in sette brani, essa voleva ricomporre il suo mantello imperiale. Il lauro di Cesare sulla testa di un barbaro era un oltraggio all’iniziativa d’incivilimento che l’aveva contraddistinta nei secoli passati. Voleva tornare a riporselo sul capo, rialzandosi regina e donna di sè. Era stanca di quei proconsoli austriaci che rosicchiavano la penisola. E papi e re erano un impaccio alla libertà, un soporifero alla civiltà. L’idea d’indipendenza quindi, l’idea di unità si elevarono sfolgoranti sull’orizzonte della rivoluzione, e ne formarono tutto il programma. Questi due grandi bisogni correvano ad una soluzione. La buona fortuna era per allora di Carlo Alberto che, di casa italiana, combattendo per la nazionalità italiana, cominciava ad aggruppare intorno a sè i brani differenti d’Italia. I Ducati, il Lombardo, il Veneziano erano a lui; per lui caldeggiavano i siciliani e ben tosto gli si davano; a lui la simpatia di tutti gl’italiani, i quali, se la fortuna lo avesse favorito, non avrebbero certo domandato di meglio che avere un signore glorioso e guerriero, se d’uopo era