La porta della gioia/La fiaccola dell'illusione

La fiaccola dell’illusione

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Dèdalo, padre d’Icaro La donna vertiginosa

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LA FIACCOLA

DELL’ILLUSIONE

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La virtù è simile ad una rete sottile e consistente, la quale racchiude colui o colei che l’esercita fra le strette maglie dell’estimazione, del rispetto, della fiducia pubblica, e costringe chi vi si trova imprigionato a non uscirne, senza grave suo danno e disdoro, quand’anche gli si presentasse l’occasione più favorevole e più tentatrice.

Così pensava non senza mestizia la signora Angelica Mari, la quale, essendo arrivata presso la quarantina dopo aver avuto due mariti e neppure un amante, si trovava precisamente nelle condizioni della persona virtuosa imprigionata forzatamente nell’involucro della propria virtù.

Ella era giunta a quel momento pericoloso della sua vita in cui avrebbe voluto insinuarsi fra l’una e l’altra di quelle sottili maglie, andarsene per qualche poco in giro per le strade tortuose e attiranti che intravvedeva dalla sua prigionia e quindi tornarsene al proprio onorato posto di donna incorrotta ed incorruttibile, senza [p. 104 modifica]avere prodotta la minima lacerazione nella rete delicata dell’estimazione, del rispetto e della fiducia pubblica.

Naturalmente la via pericolosa ed attraente che la tentava e le suggeriva così perniciosi pensieri non era un sentiero deserto nè fiancheggiato da siepi di rovi. Era bensì una stradetta in ombra, silenziosa e misteriosa, ma si allungava all’infinito sotto ghirlande di rose e al principio dell’erta verso cui essa dolcemente saliva l’attendeva un bellissimo giovane dai capelli bruni e ondulati e dagli occhi grigi e magnetici, il quale si chiamava semplicemente, nella prosaica realtà dello stato civile, il signor Gigi Demarinis.

Gigi Demarinis le faceva da un mese e mezzo la corte e da otto giorni nutriva su di lei fondate speranze di conquista. Le nutriva da quando la signora Angelica aveva cominciato a trattarlo duramente, con quell’asprezza spaventata della donna che si sente a poco a poco costretta a cedere innanzi ad un avversario più forte e se ne vendica in precedenza pungendolo con fredde parole e con atteggiamenti sdegnosi.

Egli conosceva ormai da dieci o dodici anni quel genere di schermaglia e, consapevole della propria superiorità e della propria fortuna, vi si divertiva prolungando quello stato d’attesa ostile ed incerta che esasperava le donne e gliele but[p. 105 modifica]tava poi d’un tratto fra le braccia, ammansate, in una rabbiosa docilità.

La signora Mari con la sua compiuta bellezza di donna quarantenne, con la sua severa eleganza da presidentessa di varie opere pie non gli piaceva in particolar modo, ma lo tentava per quella sua intatta fama di rigida onestà, per quell’aureola di incontaminata purezza che circondava austeramente il suo profilo ancora leggiadro, sebbene un po’ freddo di nobile dama.

Quantunque avesse sposato due borghesi, prima un celebre chirurgo, poi un ricco industriale, ella discendeva da una aristocratica famiglia, intransigentissima in fatto di morale, dove ogni marito poteva per tradizione vantare la perfetta fedeltà della propria moglie. Ed ella stessa, rimasta vedova ancora giovane dopo quindici anni di convivenza con un personaggio maturo ed importante che l’aveva enormemente tediata, era quasi subito passata a seconde nozze col signor Mari, un uomo della sua età, ma irrequieto e distratto dagli affari, il quale aveva stretto quel matrimonio come avrebbe concluso un qualsiasi contratto, per mettersi in relazione con alcuni nobili e danarosi capitalisti che interessavano la sua industria.

Ciò non ostante il timore di perdere o di offuscare nei giudizi del mondo la propria fama di donna bella, eppure esemplare nella sua [p. 106 modifica]condotta di moglie, era nella signora Angelica così vivo che i numerosi corteggiamenti più o meno arditi, più o meno pericolosi, ai quali l’avevano esposta fino allora le sue particolari seduzioni e la poca felicità coniugale, erano rimasti sempre allo stato di inutili tentativi da parte altrui e di inutili tentazioni da parte sua.

Ella sentiva però che l’agguato teso da Gigi Demarinis alla sua incorrotta virtù era questa volta più serio e che una maggior forza di resistenza e un più vigile dominio su sè stessa le sarebbero occorsi per resistervi fino a stancare la pazienza e a ferire definitivamente l’amor proprio del giovine.

Questi apparteneva a quella schiera fortunatamente esigua di uomini dinanzi a cui tutte o quasi tutte le donne si sentono turbate come per una minaccia oscura e pure allettatrice che loro sovrasti. Sul suo viso pallido e un po’ largo s’accendeva una bocca avida d’una freschezza d’adolescenza che non rideva mai, ma sorrideva spesso aprendosi sopra una dentatura luminosa, mentre gli occhi grigi, nell’ombra delle ciglie nere, balenavano d’un lampo freddo il quale diveniva magnetico, inquietante, quasi intollerabile, se si fissava in uno sguardo femminile per indagare o per sconcertare.

Pareva l’uomo destinato alle poche e grandi passioni e non era mai stato che l’uomo delle [p. 107 modifica]molte piccole avventure, poichè sotto quell’apparenza fatale nascondeva invece una leggera anima tra fatua e incontentabile che lo spingeva continuamente a ricercare l’ignoto e il diverso, in quell’insaziabile desiderio di sempre nuove prede che caratterizza i conquistatori e che è il retaggio grandioso e doloroso dei don Giovanni e dei Casanova.

Egli armeggiava da quasi due mesi per giungere al possesso di quella preda sconosciuta e resistente ch’era la signora Angelica Mari e vi si ostinava con una pacata risolutezza, con una ostentata sicurezza di vittoria che urtava la donna e la incitava verso di lui a quel contegno irritato, sprezzante ed aggressivo il quale significava, per la sua esercitata esperienza di donnaiuolo raffinato, una vicina capitolazione.

— In fondo voi non siete che un vanesio freddo, un piccolo ozioso il quale fa raccolta di conquiste come un altro più onesto fa raccolta di francobolli, — ella gli diceva un giorno ch’erano soli in salotto, servendogli una tazza di thè con le sue belle mani cariche d’anelli.

— E voi non siete che una piccola donna vile e paurosa la quale dà assai maggiore importanza ai giudizi delle sue amiche e ai pettegolezzi dei trenta o quaranta maldicenti che co[p. 108 modifica]stituiscono il suo mondo, che non alle inclinazioni del suo cuore e alla propria felicità.

— Se voi vi immaginate che la mia felicità dipenda dall’accettare o dal rifiutare le vostre insistenti offerte d’amore, vi sbagliate, mio caro, e date prova d’una presunzione che sarebbe ammirevole, se non fosse ridicola ed insolente.

— La mia presunzione e la mia insolenza hanno almeno il merito della sincerità, mentre la vostra virtù, a cui tenete tanto, non è che una virtù di parata di cui vi adornate per il mondo, una elegante cappa d’austerità, di taglio irreprensibile e di colore grave, sotto cui si agita e freme imprigionato il vostro desiderio di vivere e di godere, senza trovare il coraggio di liberarsi e di correre con piedi leggeri alla sua gioia.

— Quanto mi divertite con queste vostre frasi poetiche prese ad imprestito da chi sa chi!

— I poeti sono infatti bravissime persone, fatte apposta per soccorrere gli innamorati impacciati ed abbellire quando occorra il loro linguaggio poco eloquente.

— Innamorato, voi! Con quella nobile fama di collezionista d’avventure che vi siete creato con lunghi anni di pazienti ed onorate fatiche!

— Perchè ritornate sempre su questo argomento? Non c’è nulla di più bugiardo che la fama, mia cara amica. [p. 109 modifica]

— Ma ditemi dunque. Esiste forse una sola donna amata con successo da voi il cui nome non si trovi sulle bocche di tutti?

— Volete sottopormi ad una prova?

— Potrebbe darsi, ma sono certa che fallirà.

— Per voi o per me?

— Per voi, mio caro; l’esaminatrice sono io e mi riserbo il diritto di bocciarvi.

— O di promuovermi?

Ridevano entrambi ma senza gaiezza, afferrati da una inquietudine nervosa che costringeva Demarinis ad alzarsi ogni momento e ad aggirarsi pel vasto salotto, dalla finestra al pianoforte, e dal pianoforte al tavolino da thè, mentre la signora Angelica, affondata in un’ampia poltrona, agitava sotto la gonna nera un piedino febbrile, calzato di velluto e adorno di un’antica fibbia d’oro.

— Ascoltate, — egli disse avvicinandosi d’improvviso e curvandosi sullo schienale della poltrona, — se è veramente una prova di discrezione ciò che voi mi chiedete, e se questa può finalmente concedermi quella fiducia che v’ostinate, e non per mia colpa, a negarmi, ebbene...

— Ebbene? — ella ripetè volgendosi di scatto a fissarlo negli occhi.

— Ebbene, il caso che mi è sempre stato [p. 110 modifica]benigno mi permette di darvi, e proprio in questo momento, ampiamente e nel modo più chiaro, la prova che mi domandate.

— Non comprendo.

— Comprenderete quando vi dirò che voi mi mettete con le spalle al muro e mi costringete a rivelarvi un piccolo o grande segreto d’amore che due persone soltanto, le due persone più direttamente interessate, conoscono.

— Spiegatevi meglio, vi prego.

Gigi Demarinis trasse l’orologio e disse:

— Sono le cinque e un quarto. Tra dieci minuti voi riceverete la visita di una signora che ci onora entrambi della sua amicizia.

— La cosa non mi sembra straordinaria.

— Infatti è semplicissima. Ciò che però è alquanto meno semplice è questo: che, sotto l’apparenza di una amabile visita e col pretesto di sorbire una innocua tazza di thè, la suddetta signora verrà qui per ritirare dalle mie stesse mani un pacco di lettere eccessivamente compromettenti e per suggellare con quest’atto definitivo la fine di un amore che è durato un anno e che si è svolto nel più profondo segreto, nel più impenetrabile mistero.

— Ma perchè proprio qui!

— Perchè quest’atto doloroso e diciamo pure disgustoso per tutti e due deve sempre a parer mio avvenire sopra un terreno neutro, [p. 111 modifica]nella forma più corretta e meno grave, senza rimpianti senza rimproveri, senza vane parole, senza drammi, insomma. Io odio tutto ciò che è scena, che è ostentazione di sentimenti; e in amore mi piace semplificare tutto, specialmente la rottura che è sempre lo spaventoso scoglio delle passioni e delle avventure che finiscono.

— L’idea di scegliere per questo scopo la mia casa, il mio salotto, la mia presenza è d’una sottigliezza che mi sfugge.

— Difatti è sottile e perfida, ma non manca di un certo geniale cinismo. È il mio sistema. Io scelgo generalmente per l’ultimo addio di un amore che tramonta la vicinanza consolatrice di un amore che sorge. È scettico ed è romantico insieme. La fiaccola della mia illusione passa così da una mano all’altra senza spegnersi. Vi avverto però che le persone designate agiscono sempre nella più perfetta incoscenza e che questo è l’unico caso in cui, per espressa volontà vostra e non per mia fatua e colpevole millanteria, una delle due attrici conosce la propria parte ed anche quella dell’altra.

— Ma non ne conosco il nome finora.

— La vedrete in persona fra cinque minuti.

— Dove sono le lettere?

— Eccole qui, racchiuse onestamente in un libro, un romanzo di Farrère ch’io restituirò con molti ringraziamenti alla signora. Ammetterete, [p. 112 modifica]spero, che non si può essere più corretti di così, che non si può apparire meno raccoglitori di conquiste di quanto non vi sembri io in questo tipico caso.

— E come spiegate la fama che vi circonda?

— Sono le donne, mia cara amica, quelle che perdono la testa e si mettono, come voi dite, sulle bocche di tutti. Quando stanno per cadere fra le braccia di un uomo cominciano a trattarlo così arrogantemente che ognuno apre gli occhi e si pone in guardia. Quando poi vi sono cadute diventano così gelose, esigenti ed imprudenti che si gettano senza saperlo da sè stesse in pasto alla pubblica curiosità. E poi esse accusano gli uomini di fare i collezionisti d’avventure! Vi assicuro che le guardinghe, le scaltre, le vere dissimulatrici sanno benissimo porsi al riparo e vi riescono perfettamente. Eccone un esempio.

Gigi Demarinis agitò in aria il libro che conteneva le lettere compromettenti e la prova della propria discrezione, ma la signora Angelica non ancora persuasa ribattè:

— Chi mi assicura che questo libro nasconda veramente ciò che voi dite? Potrebbe racchiudere alcune lettere innocentissime od anche nulla.

L’altro sorrise:

— Non posso giungere al punto di mostrarvi le lettere e di farvele leggere, anche perchè... [p. 113 modifica]

In quel momento il campanello squillò acutamente.

— Anche perchè — soggiunse Demarinis — la persona in questione giunge in questo momento e me ne mancherebbe il tempo.

La persona in questione giungeva difatti, ed era la cognata della signora Angelica, la marchesa Alvazzi, la giovine sposa di un suo minor fratello, ed apparteneva quindi a quella nobile ed austera famiglia, intransigentissima in fatto di morale, in cui tutti i mariti potevano per tradizione vantare la perfetta fedeltà delle proprie mogli.

Le due signore si abbracciarono con molti affettuosi vezzeggiamenti, quindi la marchesa Alvazzi salutò con disinvolta cordialità Gigi Demarinis, il quale s’inchinò a baciarle la mano.

— Vi siete ricordato di portarmi il mio romanzo? — ella gli chiese levandosi indolentemente un guanto e sollevando quasi a fatica alle sue labbra la tazzina fumante.

— Eccolo, marchesa, il vostro Farrère — egli rispose porgendole il libro avvolto in un foglio bianco e chiuso da un cordoncino di seta violacea.

Ma la signora Mari fu rapida ad afferrarlo al passaggio.

— Mi permetti di tenerlo e di leggerlo anch’io? Se tu sapessi quanto mi piace questo nuovo Loti e il sapore esotico dei suoi libri! Me lo lasci qui senz’altro, non è vero? [p. 114 modifica]

Ella fece l’atto di sciogliere il nodo e d’aprire l’involto, ma la mano sguantata della marchesa Alvazzi, una mano lunga, magra, con le dita affilate e le unghie di smalto rosa, si buttò sul libro e lo ghermì prontamente con un gesto improvviso, atterrito, quasi convulso, più imprudente d’una parola, più rivelatore d’una confessione.

— No, cara, non posso; l’ho già promesso ad un’amica. Devo spedirlo questa sera stessa a Napoli.

E il romanzo, chiuso col suo segreto, scomparve nell’ampio manicotto della marchesa, mentre Demarinis e la signora Angelica si scambiavano uno sguardo d’intesa.

Un momento dopo il domestico entrò, girò la chiavetta della luce elettrica e tutte le lampade s’accesero. Si accese pure una fiaccola di bronzo dorato infissa ad un anello nell’angolo della parete, dietro le spalle della signora Mari.

Il giovine fissò quella luce con un lungo sorriso ambiguo e poi ambiguamente disse:

— Quella fiaccola starebbe assai meglio nelle vostre belle mani, cara amica.

Ella si volse, sorrise anch’essa e rispose semplicemente:

— È vero.