La porta della gioia/L'uncino

L’uncino

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Fedeltà L'erede

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L’UNCINO

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— Ma come? — esclamai piena di meraviglia vedendo venirmi incontro pel viale d’ippocastani la lunga figura ascetica di Manlio De-Foresi, tutto solo e accigliato, con lo sguardo a terra e l’aria tristemente meditativa.

Lo credevamo tutti a Roma, preso nei lacci d’un fortunato amore incominciato mesi innanzi, il quale divenuto in breve un fidanzamento ufficiale, stava per consacrarsi nella legalità delle nozze che si annunziavano imminenti, e questa apparizione improvvisa in una strada di Torino, la sua faccia tutt’altro che gaia, gli occhi fissi al suolo quasi per sfuggire allo sguardo altrui, sconcertavano d’un tratto quelle persuasioni di perfetta felicità che gli amici con maggiore o minore acredine gli invidiavano.

La sposa era difatti una bellissima signorina romana, figliuola di un alto funzionario, non più molto giovane nè provvista di una vistosa dote, ma circondata di tutte le eleganze e le raffinatezze di una donna che ama il lusso, la società, il piacere. Manilio se n’era innamorato alcuni mesi innanzi in una cittadina di mare, dove [p. 58 modifica]entrambi svernavano, ed aveva incominciato subito a scrivere per lei versi appassionati ed elegiaci ch’ella leggeva ridendo alle sue amiche mentre egli, dopo averglieli mandati palpitando e tremando, prendeva una barca e andava a sognare lontano, fra gli scogli.

Nessuno aveva mai compreso perchè quella bella creatura corteggiata da tanti adoratori avesse ceduto a poco a poco all’amore di quel giovane timido e impacciato quantunque intelligente, non ricco sebbene di nobile famiglia, e gli si fosse promessa in moglie non avendo dinnanzi a sè quell’avvenire brillante, quella fastosa esistenza che pareva attrarre maggiormente i suoi gusti e le sue inclinazioni.

— Ma come? — gli chiesi sorridendo un po’ incerta e stringendogli la mano in un meravigliato saluto quando De-Foresi mi fu vicino. — Siete proprio voi e siete proprio qui? Vi immaginavo a Roma immerso in una gloria di primavera nuziale e vi trovo a vagare con aria trasognata per i malinconici viali di Torino.

— Sono proprio io, — egli mi rispose con voce cavernosa, — e vi prego di non parlarmi più di primavere nuziali se ci tenete a conservare quella miserabile cosa che è la mia amicizia.

— Ma siete funebre, amico mio — osservai fra seria e scherzosa, — e non so se quella cosa per me preziosissima che è la nostra amicizia [p. 59 modifica]mi conceda il diritto di chiedervi la ragione di tanto nero.

— Chiedete, chiedete pure — ribattè Manlio ancora più fosco, — vi risponderò con Leopardi una frase sola: «La scelleraggine delle donne mi spaventa...»

— Per carità, ma voi spaventate me pure, — risi facendo l’atto di fuggire atterrita, ma egli mi trattenne supplichevole per la mano, mi pregò col viso rischiarato da un mesto sorriso.

— Non abbandonatemi così; vi prego. Parlo delle donne che amano o che fingono di amare, non di quelle che sanno concedere il conforto di una buona amicizia. Se sapeste quanto ho bisogno d’essere un poco consolato! Da una settimana non vivo che d’amarezza avvelenata, non dormo che per sognare incubi spaventosi, non esco che per abbrutirmi nella fatica del camminare, dell’andare per ore e ore, non so dove e non so perchè, come un cieco o un demente.

Ci avviammo insieme, sotto l’ombra rada degli ippocastani che allargavano le loro foglie appena verzicanti simili a mani dalle dita aperte, ed io ascoltavo le confidenze di Manlio De-Foresi in quel silenzio pieno di raccolta simpatia che permette ad un cuore oppresso di schiudersi e di abbandonare ad altri, perchè gli sia meno grave, il proprio dolente segreto. [p. 60 modifica]

— Voi non potete immaginare fino a qual grado d’esaltazione io abbia amato quella creatura, — egli diceva, — non potete credere a quale sacrificio non mi sarei offerto per lei, pur di ottenerla per sempre, pur di averla più signora che compagna della mia vita. La sua bellezza mi aveva affascinato a tal segno che solo il guardarla mi dava una specie di rapimento, simile alle estasi che devono provare i beati contemplando Dio.

Dapprima questa mia passione così spiritualizzata ed intensa l’aveva un poco stupita e, quasi direi, divertita. Livia era avvezza ai blandi corteggiamenti dei salotti, dove l’amore si nutre di tazze di thè e di frasi a doppio senso, aspettando pazientemente l’ora di scoccare un bacio dietro una portiera e il giorno di mandare una cartolina illustrata con due versi tolti ad imprestito. Io invece non osavo mandarle tutte le fantasie liriche che scrivevo per lei, seduto sopra uno scoglio in faccia al mare, il quale mi pareva meno profondo dei suoi occhi e meno infido del suo cuore.

E quando ella mi parlava con quella sua voce acuta e ridente, dove era sempre una piccola nota un po’ ironica, io tacevo oppresso, guardando il movimento delle sue labbra rosse che si aprivano sul luccicare dei denti bianchi come le valve delle conchiglie sulle perle iri[p. 61 modifica]descenti e mi piaceva anche la leggera canzonatura delle sue parole.

Passai così un mese ad adorarla in silenzio, seguendola di lontano, avvolgendola di sguardi appassionati mentre ella si lasciava corteggiare da altri innamorati più arditi e più brillanti, o giuocava il tennis con giovani eleganti in chiaro costume sportivo, o danzava tutta una notte seminuda fra le braccia di uomini in marsina i quali la stringevano al petto con un visibile piacere.

C’era fra gli altri il figlio di un industriale milionario, Renzo Cervara, che eccitava più sordamente la mia gelosia con l’assiduità e la sfrontatezza della sua corte presso Livia. Ella sembrava non restarvi indifferente ed accettava di fare lunghe passeggiate in automobile o in canotto talvolta sola con lui od accompagnata soltanto da qualche giovane amica.

Ciò mi rattristava e mi esasperava, anche perchè ella si esponeva così ai commenti meno benevoli delle signore ed ai salaci motteggi degli uomini.

Qualcuno affermava in sua difesa che Livia si era fidanzata a Renzo Cervara e che il piccolo scandalo sarebbe presto finito in un ricco ed onesto matrimonio.

Senonchè un mattino il giovane partì in automobile dicendosi chiamato urgentemente dal [p. 62 modifica]padre per un affare e nessuno lo vide più ritornare nè ricevette da lui cenno di vita. Anche la corrispondenza con Livia dovette presto cessare perchè, dopo i primi giorni d’umore abbastanza gaio, ella divenne quasi improvvisamente taciturna ed aspra, affermò di sentirsi stanca e rifiutò ostinatamente di giocare e di danzare coi suoi molti adoratori.

Fu allora che la speranza nacque nel mio cuore illuso e che durante le sue ore di solitudine irosa e scontrosa le offersi col più umile ardore il conforto, fosse pure vano, della mia compagnia.

Ella mi punzecchiò dapprima malignamente di motteggi e di frizzi talvolta velenosi, i quali venivano dal suo cuore amareggiato e deluso: poi a poco incominciò ad ascoltarmi in un silenzio chiuso ed ostile, che giorno per giorno diveniva alquanto più dolice e più amabile, finchè s’arrese, completamente disarmata.

Ormai ero diventato il suo compagno di tutte le ore e destavo senza volerlo l’invidia e la gelosia degli antichi amici suoi, i quali si congratulavano sarcasticamente con me per la mia magnifica conquista e con lei per avere affascinato ed ammansato il selvaggio poeta che disdegnava il mondo e le sue vanità.

Livia pareva non preoccuparsi delle chiacchiere e dei pettegolezzi che ci attorniavano ed [p. 63 modifica]ostentava anzi la nostra intimità con un disprezzo orgoglioso che mi riempiva di gioia e di fierezza.

Ora io conoscevo in lei un’anima infinitamente superiore alla frivola e sciocca società, che l’aveva educata e che la circondava, rallegrandomi meco stesso che la sorte avversa le avesse impedito di cadere fra le braccia d’un regazzo vuoto, incosciente e borioso qual era Renzo Cervara, pel quale quel tesoro di sensibilità e d’intelligenza sarebbe stato inutile e sciupato.

Talvolta ripetevo a Livia queste mie riflessioni baciandole le mani che erano un po’ grandi come volevano le proporzioni della sua alta statura, ma bianche ed accuratissime, ed ella allora me le toglieva con un atto nervoso, con un leggero moto d’impazienza nelle spalle, guardando fisso lontano senza rispondermi.

Aveva spesso con me momenti di incompresibile ostilità, di iracondia e di insofferenza che mi facevano terribilmente soffrire come se ella mi sfuggisse con orrore, d’un tratto, o mi guizzasse via dalle mani volgendosi ad avventarmi un morso con l’ambigua perfidia d’una serpe.

Ma se un momento dopo ella assicurava di amarmi ed io stringevo a me quel suo corpo morbido e flessuoso che aveva l’ondeggiare molle del mare calmo, dimenticavo lo scoraggiamento [p. 64 modifica]sbigottito di prima e mi sentivo il cuore traboccante di una gioia quasi ebbra.

Prima che la stagione finisse, ci fidanzammo. Venne da Roma suo padre, vennero un fratello e una cognata ed io le posi al dito l’antico anello di fidanzamento della mia povera mamma, un rubino circondato di brillanti, che io amavo come una cosa sacra. Divenimmo l’argomento di tutte le conversazioni, la mèta di tutti gli sguardi, e Livia invece di soffrirne e di sfuggirli come a me accadeva, pareva compiacersene e vi si esponeva con una specie di serena arroganza che mi stupiva.

Ella continuava ad essere per me una creatura inafferrabile, quantunque avessi messo al suo dito un simbolo di fede e circondato il suo polso d’una catena di schiaviù.

Le avevo già offerto quasi tutti i gioielli di mia madre che ne possedeva alcuni bellissimi e d’insigne fattura e ch’io conservano in uno scrignetto d’avorio antico, e prezioso anch’esso come un reliquario. E Livia amava le gemme e gli ori con tale passione che li portava su di sè sempre, anche la notte, non solo come un ornamento, ma quasi come un complemento necessario della sua bellezza, come lo sfolgorìo stesso dei suoi occhi grigi fra le ciglia nere o dei suoi denti candidi fra le labbra vermiglie.

Ella godeva infantilmente di destare l’invidia [p. 65 modifica]delle amiche ostentando quelle cose preziose che davano alla sua grazia tutta moderna una strana gravità d’idolo, la quale era insieme una stonatura stridente ed un fascino singolare.

Quando partì per Roma ella m’impose che per qualche tempo non la raggiungessi, spiegando questo suo volere con le infinite incombenze che l’aspettavano per prenderle il suo tempo e per non lasciarle per me che i minimi ritagli della sua giornata. Inutilmente le assicurai che avrei trascorsi i miei giorni in quella sua città ch’io amavo tanto, vicino a lei, anche se separato dalle materialità e dalle esigenze della sua vita. Livia sostenne la necessità d’essere lasciata per qualche settimana sola anche per provare, com’ella diceva sorridendo con graziosa malizia, la forza del mio amore nella lontananza.

Passai quaranta giorni più oscuri di quaranta notti senza luna e senza stelle, scrivendole una lettera al mattino, una a mezzodì e una alla sera come si prendono i pasti, affamato e assetato di lei fino a sentirmene languido e sfinito come per una malattia.

Ella mi rispondeva ogni due o tre giorni ed erano brevi lettere o cartoline affrettate nelle quali si scusava invariabilmente di non scrivere più a lungo per causa delle straordinarie faccende che l’assorbivano, e prometteva una lunga lettera per il domani. Ma quel domani non giungeva mai. [p. 66 modifica]

Finii col partire io stesso, annunziandomi all’improvviso con un telegramma; e quando scesi a Roma dopo una lunga notte insonne e agitata di ferrovia, non la trovai ad attendermi alla stazione. C’era invece suo fratello il quale mi accompagnò all’albergo parlandomi del tempo che faceva a Roma e del tempo che faceva a Torino come di due cose enormemente interessanti e rispondendo a monosillabi alle mie ansiose domande su Livia e sulle disposizioni che riguardavano il nostro prossimo matrimonio.

Dall’albergo telefonai alla mia fidanzata chiedendole subito un colloquio ed ella me lo concesse pel domani, avvertendomi con una vocina dolente, che i rumori dell’apparecchio rendevano lontanissima, di sentirsi poco bene e di dover sottostare agli ordini del dottore, ossia rimanere a letto e non ricevere nessuno.

Vagai per Roma tutto il giorno, mezzo istupidito dalla stanchezza e dall’ira, e a sera inoltrata mi trovai, non so se portato dall’istinto, dal caso o dalla volontà, dinanzi alla casa di Livia.

Ella abitava al secondo piano un appartamento d’angolo con un terrazzo rotondo che subito riconobbi perchè me lo aveva tante volte descritto. La strada era nuova, ampia, come le moderne vie di Roma, ed io appoggiato al palazzo di fronte potevo senza sforzo osservare le lunghe finestre illuminate, e l’interno arredato [p. 67 modifica]con eleganza, che appariva per la vetrata del terrazzo semiaperta.

D’un tratto un’automobile chiusa girò l’angolo e si fermò dinanzi al portone della casa di Livia. Ne discese rapido qualcuno che non potei vedere in faccia ma che mi diede al cuore un sussulto. Non mi mossi: sentivo che qualche cosa di grave e di affannoso stava per accadere e rimanevo là, appoggiato a quella parete fredda, col petto chiuso da non so che terrore e gli occhi sollevati a quel terrazzo rotondo come ad un palcoscenico sul quale si dovesse fatalmente svolgere un dramma.

Non so quanto tempo attesi, ma so che ad un certo momento qualcuno aperse completamente la vetrata e insieme allacciati come due amanti o due sposi, la mia fidanzata e Renzo Cervara apparvero nel vano, parlandosi sul viso e guardandosi in fondo agli occhi con un sorriso di beatitudine.

Qualche cosa di oscuro come un presentimento o una sub-coscienza doveva in me essere preparato a quella sconvolgente scena, perchè io quasi non me ne sorpresi, e fu quasi senza stupore di me stesso e di ciò che deliberavo freddamente che salii le scale di quella casa, suonai a quella porta, fui introdotto da una cameriera ignara in un salotto e porgendo il mio biglietto di visita chiesi di vedere la signorina Livia. [p. 68 modifica]

Ella mi fece rispondere che si trovava a letto malata. Replicai tranquillamente che l’avevo scorta al balcone e che l’aspettavo per salutarla prima di ripartire la sera stessa per Torino.

Attesi un quarto d’ora e quando finalmente ella trovò il coraggio di presentarsi col viso sgomento e la voce tremante di paura, io ebbi la forza di sorriderle con un compatimento benevolo e di dirle queste parole: «— Signorina, ella forse non ha mai osservato che cosa accade nelle case di campagna quando la secchia si stacca dalla corda e cade in fondo al pozzo. La massaia prudente che vuol recuperare l’utile oggetto va a cercare un uncino di ferro a tre punte, lo assicura alla corda e pesca nel fondo del pozzo finchè la secchia s’attacca pel manico all’uncino e ritorna in suo possesso. Ebbene, signorina, avendo perduto il suo primo fidanzato, ella, per ricuperarlo, ha fatto precisamente come la prudente massaia ed io sono stato l’uncino col quale, pescando e ripescando, ella è riuscita a ritornare in possesso di quell’utile oggetto. Io sono così modesto e così onesto che non le chiedo per questo servizio il minimo compenso, anzi, lo sbalordimento della sua faccia è tale in questo momento da destare in me la più indulgente pietà».

M’inchinai ed uscii senza aggiungere parola, e il domani ricevetti lo scrignetto di antico avorio coi vecchi gioielli di mia madre.