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amalia guglielminetti


Finii col partire io stesso, annunziandomi all’improvviso con un telegramma; e quando scesi a Roma dopo una lunga notte insonne e agitata di ferrovia, non la trovai ad attendermi alla stazione. C’era invece suo fratello il quale mi accompagnò all’albergo parlandomi del tempo che faceva a Roma e del tempo che faceva a Torino come di due cose enormemente interessanti e rispondendo a monosillabi alle mie ansiose domande su Livia e sulle disposizioni che riguardavano il nostro prossimo matrimonio.

Dall’albergo telefonai alla mia fidanzata chiedendole subito un colloquio ed ella me lo concesse pel domani, avvertendomi con una vocina dolente, che i rumori dell’apparecchio rendevano lontanissima, di sentirsi poco bene e di dover sottostare agli ordini del dottore, ossia rimanere a letto e non ricevere nessuno.

Vagai per Roma tutto il giorno, mezzo istupidito dalla stanchezza e dall’ira, e a sera inoltrata mi trovai, non so se portato dall’istinto, dal caso o dalla volontà, dinanzi alla casa di Livia.

Ella abitava al secondo piano un appartamento d’angolo con un terrazzo rotondo che subito riconobbi perchè me lo aveva tante volte descritto. La strada era nuova, ampia, come le moderne vie di Roma, ed io appoggiato al palazzo di fronte potevo senza sforzo osservare le lunghe finestre illuminate, e l’interno arredato

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