La mia vita, ricordi autobiografici/XI
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XI.
Ancora di Livorno.
È naturale che narrando di questi miei anni giovanili o, meglio ancora, infantili, io dedichi gran parte dei miei ricordi alla scuola. Infatti la vita dei fanciulli si riassume quasi tutta nella scuola ove trascorrono l’intera giornata, salvo la domenica. E la casa, in cui bisogna eseguire le lezioni prescritte dal maestro, non è forse una continuazione della scuola? Ed ecco perchè essa esercita una sì grande influenza su tutta la vita.
Ad ogni modo dirò qualche cosa anche sulla mia famiglia che mi educava con sistemi affatto diversi da quelli adottati dalla maggioranza. Forse non erano estranei a questi sistemi le continue occupazioni del babbo che non gli permettevano di occuparsi troppo visibilmente di me e le frequenti indisposizioni della mamma a cui non si confaceva affatto l’aria di Livorno. Prima di tutto mi si lasciava una piena, intera illimitata libertà nelle letture. Nella, casa (oh dolce casa!) indimenticabile di via degli Elisi, c’era una stanza che serviva ad uso di biblioteca o — per esser più esatta — di magazzino di libri. Era affatto appartata dal resto del quartiere e l’unica finestra che la illuminava dava, anch’essa, sul cimitero degl’Inglesi: e io, leggendo, riposavo lo sguardo sui verdi salici inondati dal sole tra le cui verdi rame avevano fatto il nido le capinere.
Le domeniche, dopo la messa, io mi rinchiudevo lì dentro e non è calcolabile la quantità di libri ch’io mi andavo, volta per volta, divorando.
Oltre alla lettura avevo una gran passione per le bambole e pei giocattoli.
La mamma mi aveva regalato un grande scaffale di legno ricoperto di una tendina di seta, perchè potesse accogliere tutte le mie figliuole coi relativi accessorii.
Possedevo cucine, armadi, cassettoni, tavolini, canapè, specchiere, corredini completi di biancheria e di vestiario, servizi di porcellana, ecc., ecc.
E trovavo il tempo di tener tutto in un ordine scrupoloso, aiutata in ciò dai consigli della mamma. Una delle mie grandi passioni era quella di far da cucina alle bambole: quindi non davo pace alla Giovanna (la nostra donna di servizio) finchè non avesse messo a mia disposizione dei minuscoli pezzetti di carne, di formaggio, di burro, di prosciutto, ecc. E che buoni bocconcini sapevo fare! Le bambole li apprezzavano mediocremente, ma in compenso li mangiavo io o qualche bambina amica venuta a passar con me la giornata.
La mamma non solo non s’impazientiva mai per quelle mie aspirazioni... gastronomiche, ma le incoraggiava permettendomi l’acquisto frequentissimo di pentolini, casseruole, bricchi, piccoli girarrosto, ecc. Non sapeva nulla di pedagogia la cara, semplice donna: ma alla Giovanna o al babbo che protestavano, soleva dire, stringendosi nelle spalle: — Sono cose che le rimarranno nella mente quando sarà grande e avrà famiglia.
Infatti le mie modeste abitudini gastronomiche per cui non mi sono mai trovata imbarazzata a mettere insieme un discreto desinaretto, le debbo a lei: e debbo pure a lei il mio libro della Fanciulla massaia che ha insegnato a far da mangiare a due o tre generazioni di ragazze e — pare impossibile! — non ha assicurato un boccone di pane a me. Cose che succedono.
Altra singolarità della mia educazione. In casa mia si parlava di tutto anche in faccia a me. Mai una di quelle reticenze così pericolose che mettono le fanciulle sulla via delle curiosità malsane: mai uno di quei prudenti quanto improvvisi silenzi che i bambini hanno mille ragioni di non trovar naturali. Certo, siccome il babbo e la mamma erano persone oneste, dabbene e rispettose dell’infanzia, non tenevano un linguaggio licenzioso nè lo avrebbero tollerato in casa loro; ma parlavano di tutto con decente franchezza: tanto che a tredici anni io sapevo della vita quanto può saperne una colta donna di cinquanta. L’amore, le gioie e i dolori della maternità, le cadute, i traviamenti, i delirii delle passioni, non erano avvolti per me da quella terribile poesia misteriosa che turba il sonno alle fanciulle e mette sulle loro guancie delle fiamme a cui spesso è estraneo il pudore!
Castissmia e pura io sapevo tutto: e di tutto parlavo con la mamma e con le amiche di lei, con serenità imperturbabile. Spesso a me bambina hanno confidato le loro pene delle giovani donne di venticinque o trent’anni. E se io non potevo dare il consiglio, offrivo però sempre la simpatia e la sicurezza del segreto. Nel nostro casamento, al primo piano, abitava una certa signora Nerina sul cui conto se ne dicevano di tutte e meritatamente, forse. Era una donnina esile, bruna, giovane e bellissima. Nessuno la salutava, si capisce. Una volta fu lungamente ammalata e io provavo una inesplicabile tristezza nel veder sempre chiusa quella finestra a cui si affacciava spesso il dopo pranzo, tutta chiusa in una lunga veste di seta bianca.
Finalmente guarì e un giorno, tornando da scuola con una bella rosa in mano, la incontrai per le scale. Nel vederla pallida e abbattuta, provai un vero rimescolio di tenerezza e senza pensar troppo alla convenienza del mio atto, le porsi la rosa sorridendole.
La signora Nerina lì per lì rimase come pietrificata: ma si rimesse subito, prese la rosa e mi baciò in fronte replicatamente, ringraziandomi. Il tutto con grande scandalo della Giovanna che era già in capo scala e che si fece un dovere di raccontar tutto alla mamma.
— L’Ida ha fatto benissimo — rispose mia madre — e voi, Giovanna, dimostrate davvero d’aver poco cuore. Voi frequentate la chiesa molto più di me, ma siete ben poco disposta a seguir l’esempio di Gesù.
La sera stessa la cameriera della signora Nerina mi portò una magnifica bomboniera a nome della signora, che aveva infilzato nei nastrini il suo biglietto da visita.
Il babbo mi fece accettare il dono e scrisse un biglietto di ringraziamento, che mentre esprimeva alla signora Nerina la nostra riconoscenza, non incoraggiava altri futuri riavvicinamenti.
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