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sieme un discreto desinaretto, le debbo a lei: e debbo pure a lei il mio libro della Fanciulla massaia che ha insegnato a far da mangiare a due o tre generazioni di ragazze e — pare impossibile! — non ha assicurato un boccone di pane a me. Cose che succedono.

Altra singolarità della mia educazione. In casa mia si parlava di tutto anche in faccia a me. Mai una di quelle reticenze così pericolose che mettono le fanciulle sulla via delle curiosità malsane: mai uno di quei prudenti quanto improvvisi silenzi che i bambini hanno mille ragioni di non trovar naturali. Certo, siccome il babbo e la mamma erano persone oneste, dabbene e rispettose dell’infanzia, non tenevano un linguaggio licenzioso nè lo avrebbero tollerato in casa loro; ma parlavano di tutto con decente franchezza: tanto che a tredici anni io sapevo della vita quanto può saperne una colta donna di cinquanta. L’amore, le gioie e i dolori della maternità, le cadute, i traviamenti, i delirii delle passioni, non erano avvolti per me da quella terribile poesia misteriosa che turba il sonno alle fanciulle e mette sulle loro guancie delle fiamme a cui spesso è estraneo il pudore!

Castissmia e pura io sapevo tutto: e di tutto parlavo con la mamma e con le amiche di lei, con serenità imperturbabile. Spesso a me bambina hanno confidato le loro pene delle giovani donne di venticinque o trent’anni. E se io non potevo dare il consiglio, offrivo però sempre la simpatia e la sicurezza del segreto. Nel nostro casamento, al primo piano, abitava una certa signora Nerina sul cui conto se ne dicevano di tutte e meritatamente, forse. Era una donnina esile, bruna, giovane e bellissima. Nessuno la salutava, si capisce.