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Mentre mi trottavano nella mente questi pensieri, suonò la mezza, e un giovinetto delle tecniche venne ad avvisarci che il signor direttore ci aspettava per la solita lezione d’italiano che io avevo del tutto dimenticata. Ci alzammo tutte, ripiegammo il lavoro e salutata la maestra, infilammo l’àndito lungo ed oscuro che separava la scuola femminile da quella maschile.

Chi rideva, chi sospirava, chi chiedeva consiglio. Eravamo tutte agitate per quella benedetta faccenda del componimento. Alcune lo avevano fatto male, altre non erano riuscite a svolger bene l’argomento, molte non lo avevano neanche capito.

Io, poi, mi trovavo in condizioni anche più lacrimevoli: non avevo scritto un rigo. Pensavo con terrore all’accigliatura del maestro, al suoi occhi di fuoco e soprattutto a quei suoi brevi ma violenti accessi di collera, durante i quali non vedeva più lume.

Poichè bisogna sapere che il nostro professore era un uomo che non aveva nulla che fare con gli sdolcinati mentori d’oggi: sobrio di parole, severo e qualche volta terribile anche con noi giovinette, non intendeva di abbassare la scienza fino a noi, ma pretendeva che noi c’inalzassimo fino a lei e qualche volta ci riusciva.

Quando entrammo in classe, era là, al suo posto, con un gran Dante illustrato sotto il naso.

Lo salutammo e sedemmo ai nostri banchi. Si fece leggere i componimenti ed alcuni ne lodò: di altri, poi, fece giustizia sommaria condannandoli alla lacerazione o al cestino. Quando giunse la mia volta, mi alzai e