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urga 203


con una specie di spavento che noi scavavamo la tomba alla nostra macchina. Più allargavamo lo spazio intorno alle ruote, e più esse affondavano. Era la pressione laterale della terra che le sorreggeva — e noi la toglievamo — e non un fondo duro. Non v’era fondo. La melma diveniva molle e acquosa nella profondità. Era tutto un lago di melma con una crosta, e due ruote avevano sfondato la crosta: questa la situazione. Intanto la ruota dalla parte sollevata s’era talmente inclinata da finire con l’appoggiarsi alla carrozzeria, e mandava ogni tanto uno scricchiolio minaccioso. Io inviavo delle scuse mentali alla signora del capitano medico i cui racconti avevo accolto con tanto scetticismo. Dovevamo trovarci presso a poco nei paraggi dove s’era affondato il suo tarantas — e un tarantas non pesa la decima parte di un’automobile.

Ci dicevamo che Urga era vicina, a poco più d’un’ora di cammino, che in tre ore si poteva essere di ritorno con una buona squadra d’uomini, con un carico di tavole e di travi, con dei cavalli.... Ma non sapevamo deciderci ad andare a chiedere quell’aiuto. Era una questione d’amor proprio, una onesta debolezza. Ci figuravamo il ritorno d’uno di noi, a piedi, trafelato, infangato, alla Banca, le meraviglie degli ospiti, il racconto dell’arenamento e la confessione della nostra impotenza, le generose offerte di soccorso, la gente che veniva a vedere l’automobile vinta — quell’automobile che aveva percorso con tanta baldanza le vie di Urga —; ci figuravamo tutto questo, e ci pareva di doverne subire una non so quale umiliazione. No, no, bisognava uscire da quell’imbarazzo con mezzi trovati sul posto. Un capitano la cui nave incaglia fa tutto quanto gli è possibile per disimpegnarla prima di rassegnarsi ad inalberare il segnale di soccorso. Sentivamo quella specie di orgoglio.

— Se avessimo delle travi! — esclamavamo guardandoci intorno come se le travi potessero spuntare dal suolo.

— O i nostri parafanghi!

Una carovana di carri tirati da buoi, diretta ad Urga, pas-